Giuramento della Pallacorda

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venerdì 11 marzo 2011

Elementi di Antropologia della debolezza

I bambini imparano relativamente presto la differenza fra ordine e disordine. I genitori a casa fanno spesso riferimento a questo termine e quando i bambini sono in età scolare la prima difficoltà che devono superare viene definita dai pedagogisti come scolarizzazione. Con questo termine si vuole indicare quell’insieme di regole e norme che permettono di stare in un luogo chiuso come un’aula, assieme ad altri individui che bisogna imparare a conoscere. Durante la scolarizzazione, un periodo che richiede per completarsi a volte anche un anno intero, si impara tra l’altro a stare seduti nel banco, come è possibile parlare ai maestri (se alzando la mano oppure chiamando a voce non troppo alta, con precisi termini che annunciano tale domanda, etc.) e come ci si rapporta con coloro che stanno diventando compagni di un viaggio relativamente lungo.

Eh sì, durante questi primi apprendimenti il concetto di compagno di viaggio è proprio quello importante! Qui risiede il trucco, in fondo, del nostro vivere assieme agli altri e secondo regole condivise. Ossia secondo un ordine che viene considerato adatto nel mantenere un particolare livello di coesione sociale, garantendo un altrettanto particolare livello di libertà individuale. Il termine società deriva, anche questo, dal sostantivo latino socius, ossia “socio”, “alleato”. Dunque, la società è un sistema di alleanze fra individui e il governo di questi rapporti sociali si dispiega fra due piatti di una bilancia. Su di uno poniamo il grado di sicurezza sociale, mentre sull’altro abbiamo il grado di libertà individuale. Quando uno dei due piatti pesa di più, viene meno il peso dell’altro, ovviamente. Se ho più sicurezza sociale, vado incontro necessariamente ad un abbassamento del grado di libertà personale, mentre se aumenta quest’ultima diminuisce la prima. Una perfetta società è quella che, in linea generale, riesce a mantenere i due piatti allo stesso livello, il più a lungo possibile nel tempo ed anche nel rapporto con le bilance delle altre società limitrofe. Il compito, come si può ben capire, non è affatto semplice e richiede una conoscenza relativamente approfondita dei processi umani che portano le persone a stare insieme in alcune circostanze esistenziali, mentre tendono a separarle in altre. Il comportamento umano è di certo la cosa più complessa da comprendere e le ricerche che continuano sotto diverse forme, ma comunque dedicate allo studio dell’umanità, sono costantemente in evoluzione, senza però raggiungere una visione onnicomprensiva delle attitudini mentali e comportamentali della nostra esistenza.

Bene, detto questo, torniamo al viaggio del nostro eistere.

Il termine latino di riferimento che indica il viaggio della vita è errare, dal quale deriva l’ulteriore errante. Nel linguaggio comune però tale parola è associata anche al concetto di sbagliare, perché colui che erra, facendo… può commettere sbagli. Nella saggezza popolare si dice infatti spesso che solo colui che fa rischia di sbagliare, mentre chi non fa niente difficilmente potrà sbagliare. In questo senso, il cammino esistenziale è tanto un andare verso quanto un allontanarsi da. In questo allontanamento si possono incrociare percorsi non del tutto esatti, nel senso che possono discostarsi da quelle regole che la società ha stabilito per se stessa e per la propria sopravvivenza. Anche se possono però esistere regole di comportamento di andamento che, pur essendo all’interno della società, sono dotate di una certa autonomia, come accade, ad esempio,nel caso del comportamento auto-protettivo delle lobbies.

In questo andare, comunque, si deve mettere in conto che esistono percorsi già tracciati, cioè quelli rappresentati dalla tradizione, e percorsi che possono invece avere un alto livello di imprevedibilità, perché presentano un elemento che caratterizza sempre i viaggi più interessanti per l’uomo: il rischio. Il rischio, come direbbe Anthony Giddens, è una categoria esistenziale-antropologica che mutua o origina le sue connotazioni attuali da quando inizia l’esplorazione, dopo i viaggi di Marco Polo e la scoperta dell’America. In realtà, il rischio, inteso come la possibilità di tracciare nuove rotte e nuove mete con la propria esperienza di vita, si origina o nasce con la presenza della nostra specie sulla terra. Senza rischio non ci sarebbe nessuna scoperta, come nessuna conquista ulteriore rispetto a quello che già si possiede.

Il rischio è un’attitudine umana positiva e scientifica, ante litteram e non, che contiene però un margine di errore che, se non valutato attentamente, porta a ciò che prima abbiamo definito come errore. Il rischio ci permette di errare, in entrambi i sensi del termine: andare e sbagliare. Eppure, se voglio andare, in qualche modo devo mettere in conto la possibilità di rischiare. Ancora una volta, come molte volte nella via mentale di ogni persona, si tratta di stabilire una relazione equilibrata fra questi due elementi.

Quanta dose di rischio e quanta di errore posso mettere in conto nel mio cammino di vita?

Per rispondere a questa cruciale domanda, secondo la prospettiva dell’Antropologia della mente, è necessario ragionare facendo riferimento ad un ulteriore fattore esistenziale e comune a tutti gli esseri umani.

A tutti noi è capitato passare momenti della propria vita in cui si è creduto di essere forti ed altri in cui ci si è sentiti più deboli, e proprio grazie a questo vissuto è ragionevole che ogni individuo immagini il proprio futuro secondo questa prospettiva: alcune volte forti ed altre volte deboli.

Cosa significa essere forti ed essere deboli?

Innanzitutto è necessario ragionare sulle locuzioni rette dal verbo essere, inteso come sostanza, nel nostro caso come una realtà ontologica, ossia costituente la persona. Nel nostro attuale sistema della cultura, quello Occidentale del secondo millennio, il termine sostanza viene confuso con quello di manifestazione, in base al quale si presume che il visibile rispecchi l’invisibile, e grazie a questa relazione che si stabilisce fra l’essere e l’apparire, il nostro sistema culturale occidentale ha inventato il concetto di coerenza con il quale si afferma la contiguità fra i due termini. Ciò che appare come espressione di forza si ritiene perciò derivi da una forza reale, sostantiva, ossia connaturata nella persona che la esprime.

Possiamo fare un identico discorso per la debolezza?

No, perché nel caso della debolezza, nel nostro sistema culturale occidentale, in nome della storia evolutiva che lo ha resto tale, si ritiene che essa derivi da una mancanza di forza, come vi fosse una falla nel sistema della forza naturale che si dovrebbe, in quanto persone adulte, possedere. La debolezza non esiste in quanto tale, come sostantiva, ma come espressione, più o meno patologica, di una deficienza, ossia della mancanza di forza.

Nel caso della forza si pensa esista una stretta relazione di contiguità di questa con la struttura essenziale dell’identità della persona, mentre nel caso della debolezza si ritiene che questa stretta relazione, in un certo senso concepita come naturale e come caratteristica ad esempio dell’età adulta, si sia in qualche modo inibita.

In realtà, sia nel caso della forza che in quello della debolezza non si dovrebbe parlare di status identitario, ossia di una situazione stabile esistenziale nella quale un individuo viene a trovarsi e per tutta la vita, quanto di una contingenza nella quale può essere evolutivamente più conveniente, per la propria qualità della vita, dimostrare forza oppure debolezza, anche indipendentemente da quello che egli ritiene di essere, forte oppure debole in generale.

Forza e debolezza sono dunque due forme di re-azione, perché entrambe si apprendono durante il corso della propria esistenza e dipendono da circostanze contingenti che stimolano l’utilizzo di una al posto dell’altra, ma solo nel caso in cui l’individuo abbia appreso che queste due strategie possono essere utilizzate come adattamento ad una specifica situazione.

Come si insegna la forza? Trasmettendo, durante l’infanzia ed all’interno della relazione genitoriale, il sentimento di sicurezza. La sicurezza la si insegna facendo capire al bambino che non sarà mai lasciato solo di fronte ad un problema, ad una incertezza, ad un successo e condividendo con lui sia le gioie che i dolori.

Come si insegna la debolezza? Attraverso l’elaborazione indotta di un sentimento di incertezza, grazie al quale si ha la sensazione di non essere mai all’altezza della situazione, frutto di una sfiducia proveniente dall’ambiente esterno, anche genitoriale iniziale, che considera la persona mai adatta alla situazione e comunque quasi sempre lasciata in solitudine, sia di fronte ai successi che agli insuccessi.

Sperimentare con una certa frequenza il sentimento della debolezza, come risultato della incapacità ad affrontare una situazione che richiede quella giusta dose di autostima e fiducia in sé, conduce a convincersi, lentamente, che la propria “natura”, la propria “essenza”, sia quella di un “buono a nulla”. In realtà, non si hanno gli strumenti cognitivi, perché non sono stati forniti in precedenza, per reagire, sapendo che ogni tentativo è sempre qualcosa di meglio rispetto alla non azione. In effetti, la debolezza è una sorta di abbandono alla non azione, una situazione in cui si “getta la spugna”, perché non ci si è abituati a percepirsi come isolati dalla comprensione altrui. Secondo questa chiave di lettura dunque, è il processo cognitivo che regola la dimensione emozionale, e non viceversa. Mentre, all’inizio della propria vita, durante l’infanzia, è esattamente il contrario, ossia è la dimensione emozionale che attribuisce significato alla conoscenza dell’ambiente, seppure a livello rudimentale.

Nello stesso tempo, però, sperimentare con una altrettanta frequenza il sentimento di forza, proprio perché il successo nel raggiungimento dell’obiettivo conferma continuamente quanto sia giusta la strategia adottata, non significa che in futuro possa presentarsi una situazione nella quale la debolezza sia adattativamente migliore rispetto alla forza. In situazione in cui il rischio della riuscita è decisamente alto, è cognitivamente vincente negare la possibilità di vittoria. In queste situazioni, colui che apparentemente cede è colui che governa la situazione e la controlla, rispetto a colui che vuole vincere a tutti i costi. Vi possono essere ulteriori situazioni in cui inconsapevolmente, reagisco con debolezza, nonostante abbia sempre utilizzato al forza.

In questo modo, ed alternativamente, si esperimenta sia la forza che la debolezza, e si impara a rispondere con forza oppure con debolezza, sia consapevolmente che inconsapevolmente. In sostanza, tanto in presenza che in assenza di coscienza, il mio cervello è in grado di giustificare l’adozione di un comportamento rispetto all’altro solo se educato a questo tipo di riconoscimento. Per questi motivi, diciamo che la forza e la debolezza sono espressioni cognitive di adattamento antropologico.

Questa breve premessa è utile per comprendere meglio ora quello che andremo a dire circa il concetto di afflizione, perché tale fenomeno è presente in tutte le culture umane e anche tra le antropomorfe. Durante tutto il periodo dell’inculturazione, dalla nascita sino a circa vent’anni, ogni essere umano impara ad attenersi a quelle regole di vita sociale che la tradizione tramanda, ed impara a giustificarle come valide ed importanti. Apprende ovviamente anche il modo per eludere tali regole e dunque a giustificarne il motivo. L’adesione ad una norma prevede un atteggiamento di condivisione ai motivi per cui tale regola è legittimamente proposta-imposta da quella società ed in precise circostanze, ma può anche rappresentare, secondo l’ottica di colui che trasgredisce a tale regola, il mezzo per l’ostentazione sociale di uno stile di vita divergente. In qualsiasi società non è possibile trovare atteggiamenti condivisi e partecipati da tutti come necessari, ma si assiste a livelli di scostamento relativo, all’interno del quale ogni individuo crede di esercitare la propria libertà. Il concetto di libertà non è però un valore assoluto, perché come dice Jean Paul Sartre la libertà “è il luogo delle scelte possibili”, dipende cioè dalla geografia umana nella quale vi sono particolari opzioni che posso, appunto, liberamente scegliere.

Ma siamo sicuri che questa scelta sia libera davvero, ossia che ogni individuo, inserito nel proprio contesto sociale e micro-sociale, sia davvero in grado di operare la scelta di vita migliore per sè, sulla base di una valutazione autonoma? Inoltre, siamo sicuri che effettivamente questo sia auspicabile?

Io penso di no e che non sia nemmeno auspicabile, pena la formazione di un sentimento di solitudine e di non appartenenza particolarmente mortifero. Nessun individuo pensa con la propria testa, perché almeno continuiamo a rimanere in due, visto che per ben nove mesi siamo rimasti attaccati ad un cordone e la nostra vita dipendeva interamente da un altro essere umano. Poi, una volta usciti da quell’ambiente, l’utero materno, siamo entrati in un mondo talmente nuovo e ricco di stimoli che senza l’aiuto della madre stessa non saremmo stati in grado certamente di affrontare.

Siamo due, anche se apparentemente sembriamo una persona sola, come se la natura ci avesse imposto una duplicità biologica, strutturale sia nella dimensione corporea che in quella mentale. Inoltre, poiché tutti proveniamo da un utero materno, questa duplicità è sempre riconducibile, in uno dei suoi termini, al femminile… inevitabilmente. Che si nasca maschi, oppure femmine, sempre si ha a che fare con la parte femminile della madre. Diversa è la situazione del padre che, esonerato dalla gestazione ma non di certo dall’allevamento dei figli, si trova a dover sperimentare atteggiamenti diversi rispetto a quelli femminili.

Nell’essere madre bisogna essere forti e deboli al tempo stesso, perché nella forza risiede la tenacia della gravidanza e del parto, nella debolezza la capacità di abbassarsi verso la statura del nascituro, adeguarsi alla sua fragilità emozionale. Nell’essere padre bisogna essere forti e deboli, perché nella forza risiede la capacità di andare nel mondo e portare benessere in casa, assieme ai propri compagni di caccia, e difendere prole e madre, mentre nella debolezza si è pronti a giustificare gli errori di questo andare per il mondo, propri e dei compagni di ventura.

Nella debolezza vi è la forza della comprensione, dell’amore… perché vince sempre chi cede per primo.

Ecco che ora la debolezza diventa un fattore esistenziale utile, evolutivamente parlando, ad esempio, a mantenere in vita la pazienza, l’empatia, la condivisione del dolore, perché solo chi conosce la propria debolezza, perchè coscientemente la sperimenta su di sé, riconosce la stessa debolezza nell’altro, diventando in grado di giustificarne la manifestazione.

Quando un essere umano è posto nelle condizioni costanti di ricordare a se stesso che la forza espressa apparentemente nella trasgressione di una regola, perché forse vissuto in un gruppo sociale che fin da piccolo lo ha educato a credere vera questa idea, è una debolezza camuffata da forza allora sperimenta quello stato emotivo, e dunque anche cognitivo, che definiamo di afflizione. Nel caso in cui questo stato divenga la sua visione del mondo, come nel caso del carcere a vita, oppure in presenza di una pena che prevede molti anni di detenzione, quell’essere umano comincerà a credere di essere talmente colpevole che solo fuggendo cognitivamente da quella realtà penserà di farcela. Si manifesterà allora la menzogna, come unico espediente reale per sfuggire ad uno stato di afflizione che è troppo insopportabile perché troppo costante. E il mentire è un’altra forma di debolezza, forse peggiore rispetto alla trasgressione.

Ecco per quale motivo la debolezza, se metabolizzata a livello cognitivo come una risposta personale, positiva anche quando è camuffata da forza, può essere il motivo per integrarsi di nuovo nella realtà della legalità, perché in essa si può vedere un destino comune a tutta l’umanità che (in ogni dove e tempo) cerca di fuggire una realtà concreta utilizzando la forza o la debolezza quando è troppo difficile sopravvivere.

Se si vuole davvero integrare e rieducare coloro che hanno trasgredito è necessario rivedere il concetto di afflizione secondo la prospettiva che abbiamo appena proposto, perché, secondo noi, solo in questo modo è davvero possibile fare della debolezza il piedistallo della propria resurrezione.

Siamo tutti molto più simili di quello che pensiamo di non essere, e credere di essere troppo originale è all’origine di ogni esagerazione, che la storia dell’umanità ha sempre pagato a duro prezzo.

1 commento:

  1. "Nella debolezza vi è la forza della comprensione, dell’amore… perché vince sempre chi cede per primo."

    ho citato poco, ma io, in tutto ciò che ho letto qui, ho sentito tanto, ma tanto amore.

    grazie.

    simonetta bumbi

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