Giuramento della Pallacorda

Giuramento della Pallacorda

lunedì 31 ottobre 2011

Il Trekking tricolore: un modo per parlare di Doveri. - di Nazzario Giambartolomei



Nella giornata del 31 ottobre 2011 si è svolto il consueto Trekking Urbano che come epicentro ha il comune di Siena. L’iniziativa ha però coinvolto l’intero paese. Una delle città che ha ospitato, nonostante la sua non proprio regolare planimetria, un coraggioso e unito gruppo di signori, signore e ragazzi, è stata quella di Urbino. Generalmente questo Blog non ospita rassegne di eventi urbani, ma quello che è avvenuto in questa giornata è un progetto che ha avuto al suo interno una esplicita riscoperta dei luoghi, delle vicende e dei personaggi del Risorgimento italiano. La città di Urbino, come tante altre, ha prestato molte energie e uomini in quello che è il periodo storico indimenticabile per noi italiani. Il trekking Tricolore (come è stato rinominato nell’anno in cui si festeggia il 150° dell’Italia Unita) prevedeva una visita guidata dalle orme dei padri fondatori, e dall’odore delle gesta dei coraggiosi garibaldini. In questi luoghi, come per esempio all’interno del Collegio Raffaello, nell’agosto del1860 le truppe pontificie proclamarono la resa davanti ai moti risorgimentali; oggi, in quello stesso luogo, quasi 50 persone si sono ritrovate ad ascoltare la narrazione di quelle vecchie ma sempre attuali avventure liberali. In un altro momento della giornata quelle stesse persone, oramai unite da un unico scopo - sentire, vivere quelle vicende nel proprio io, assieme, uniti in un sol corpo - hanno letto ed ascoltato i nomi dei combattenti risorgimentali che sono stati arruolati nella città di Urbino; non solo, hanno riscoperto personaggi urbinati come Raffaele Carboni, un secondo eroe dei due mondi, vedendo la sua casa e la targa fortemente voluta dal popolo e dal governo australiano. Tante altre sono le storie che si sono raccontate, riscoperte e rivissute. Un filo rosso oggi legava tantissime città italiane, quello stesso filo rosso, impalpabile eppure così visibile che ha unito uno un gruppo di persone che si è spostato nelle vie della città. Sono queste le iniziative che dovrebbero riscuotere l'interesse dei sindaci e delle regioni. Un popolo come quello italiano, che spesso ha manifestato il suo infantilismo durante le elezioni, deve essere nutrito con alimenti proteici, non deve essere assecondato nella ricerca cieca del principio di piacere. Si tratta di richiedere dai nostri rappresentanti un principio di responsabilità nell'attuare una gestione delle iniziative che privilegi iniziative stimolanti, che leghino in un cappio unitario il cittadino con la sua dimensione storica, e di converso con la sua essenza; in modo da stimolare la ricerca e/o la costruzione di un senso nella sua esistenza. Si tratta, però, di "parlare di Doveri" anche e soprattutto ai cittadini. Ecco a tal proposito una delle letture centrali della giornata di oggi:


Da "DOVERI DELL'UOMO" di Giuseppe Mazzini


Io voglio parlarvi dei vostri doveri (…) I doveri che io vi indicherò, io cerco e cercherò, finché io viva, adempierli quanto le mie forze concedono.

(…)Perché vi parlo io dei vostri doveri prima di parlarvi dei vostri diritti? Perché, in una società dove tutti, volontariamente o involontariamente, vi opprimono, dove l'esercizio di tutti i diritti che appartengono all'uomo vi è costantemente rapito, dove tutte le infelicità sono per voi e ciò che si chiama felicità è per gli uomini dell'altre classi, vi parlo io di sacrificio e non di conquista? di virtù, di miglioramento morale, d'educazione, e non di benessere materiale? È questione che debbo mettere in chiaro, prima di andare innanzi, perché in questo appunto sta la differenza tra la nostra scuola e molt'altre che vanno predicandosi oggi in Europa; poi, perché questa è dimanda che sorge facilmente nell'anima irritata dell'operaio che soffre.
Siamo poveri, schiavi, infelici: parlateci di miglioramenti materiali, di libertà, di felicità. Diteci se siamo condannati a sempre soffrire o se dobbiamo alla nostra volta godere. Predicate il Dovere a' nostri padroni, alle classi che ci stanno sopra e che trattando noi come macchine, fanno monopolio dei beni che spettano a tutti. A noi parlate di diritti: parlate dei modi di rivendicarceli; parlate della nostra potenza. Lasciate che abbiamo esistenza riconosciuta; ci parlerete allora di doveri e di sacrifizio. Così dicono molti fra i nostri operai, seguono dottrine ed associazioni corrispondenti al loro desiderio.

(…)Certo esistono diritti; ma dove i diritti di un individuo vengono a contrasto con quelli di un altro, come sperare di conciliarli, di metterli in armonia, senza ricorrere a qualche cosa superiore a tutti i diritti. E dove i diritti di un individuo, di molti individui, vengono a contrasto coi diritti del paese, a che tribunale ricorrere? Se il diritto al benessere, al più gran benessere possibile, spetta a tutti i viventi, chi scioglierà la questione tra l'operaio e il capo manifatturiere? Se il diritto alla esistenza è il primo inviolabile diritto di ogni uomo, chi può comandare il sacrificio dell'esistenza pel miglioramento d'altri uomini? Lo comanderete in nome della Patria, della Società, della moltitudine dei vostri fratelli! Cos'è la Patria, per l'opinione della quale io parlo, se non quel luogo in cui i nostri diritti individuali sono più sicuri? Cos'è la Società, se non un convegno d'uomini i quali hanno pattuito di mettere la forza di molti in appoggio dei diritti di ciascuno?

(…)Colla teoria della felicità, del benessere dato per oggetto primo alla vita, noi formeremo uomini egoisti, adoratori della materia, che porteranno le vecchie passioni nell'ordine nuovo e lo corromperanno pochi mesi dopo. Si tratta dunque di trovare un principio educatore superiore a siffatta teoria, che guidi gli uomini al meglio, che insegni loro la costanza nel sacrificio, che li vincoli a' loro fratelli senza farli dipendenti dall'idea d'un solo o dalla forza di tutti. E questo principio è il DOVERE.


lunedì 10 ottobre 2011

Solo colui che ama profondamente Dio sarà un vero Ateo. di Antonio Cecere

Dopo aver letto la risposta di Alessandro Bertirotti all’articolo tradotto da Cesare Del Frate, mi sono domandato ma chi sono questo ateo e questo Dio che tanto scuotono le nostre menti.
Da una parte ci sono i credenti, gli aderenti a forme di monoteismo organizzato che sono ossessionati dalla presenza nel mondo degli atei; da un’altra parte ci sono gli atei che sono ossessionati dalla presenza nel mondo di Dio.
I primi amano gli atei a tal punto da non poter vivere senza preoccuparsi dello smarrimento che questi vivono in assenza di una Verità superiore, i secondi amano a tal punto Dio da preoccuparsi dello smarrimento che questo vive lontano dal mondo.
Ma proviamo a fare un poco di ordine:chi è Dio? Chi è un ateo? Vediamo alcune definizioni di Dio, almeno quelle più famose. Dal punto di vista ontologico, principio unico e supremo dell’esistenza, è sostanza immanente degli esseri o causa trascendente che crea il mondo fuori di sé. Oppure come fine dell’universo, sommo bene in senso assoluto in quanto tutte le perfezioni desiderabili scaturiscono da lui. Poi dal punto di vista logico, principio supremo dell’ordine nel mondo e della ragione dell’uomo. Quando Dio è considerato dal punto di vista fisico, come se fosse un essere attivo, esso diviene un Essere personale che agisce in quanto entità superiore rispetto l’umanità che ne diviene dipendente dalla sua protezione e se ne identifica in quanto gruppo sociale. Dal punto di vista morale, infine, Dio è l’intelligenza e la volontà perfetta che garantisce la moralità.
Le definizioni di ateo, invece, riguardano uomini o filosofi che negano la causalità di Dio, senza tener conto che questi uomini spesso non si consideravano atei in senso stretto. L’ateo, dunque, è spesso un senza Dio a sua insaputa. Non lo sapevano infatti i panteisti, e non lo sapeva Fichte, i primi a causa della loro identificazione di Dio con la natura e il secondo per aver scritto un articolo in cui identificava Dio “semplicemente” con l’ordine morale del mondo. Chi ha storicamente pensato il corpo come precedente all’anima si è visto etichettare da Platone come materialista naturalista, ovvero un ateo filosofico. Anche gli scettici come il buon Carneade di Cirene o il più recente Hume sono stati iscritti a questo partito loro malgrado. I veri atei spesso sono stati i pessimisti come Shopenhauer, che vedeva nel male e nell’infelicità del mondo un ostacolo insormontabile per la dimostrazione del Dio personale. Chi invece ha dato vera forza al movimento ateo è stato, a mio avviso, Feuerbach, il quale concepisce Dio come essenza oggettivata del soggetto, ovvero niente altro che una proiezione che l’uomo fa di se stesso in un essere superiore nel quale cerca di identificarsi. Nello stesso solco c’è quella categoria di atei che pensano Dio come una menzogna dell’umanità sempre in cerca di modelli da spacciare alle masse incolte, fra questi senz’altro il grande Nietzsche che, nella Gaia scienza, vede la menzogna come unica strada per esorcizzare le verità crudeli del mondo, e Dio è stata certamente la più grande fra queste menzogne.
Un altro ateismo, invece, vede Dio come una difesa dalle forze immense della natura e della sorte che risultano schiaccianti rispetto le esigue forze dell’uomo. Il campione di questa versione dell’ateismo è  Freud, che vede Dio come un immaginario grande  padre che viene continuamente invocato dagli uomini ancora a uno stadio infantile della propria evoluzione.
Questa carrellata di definizioni di Dio e di ateismo non è esaustiva né sistematica, ma spero basti per mantenere quel minimo di materiale su cui fare dei confronti fra le nostre posizioni.
Io considero però l’ateismo semantico di Carnap e Ayer la forma più interessante e certamente radicale di ciò che molti credono di dire quando dicono “ateo” di qualcuno.
Questi filosofi,infatti, spiegano bene che, una volta che la metafisica ha eliminato il Dio fisico dell’antichità, ha difatti eliminato ogni realtà del Dio che l’umanità va cercando da millenni.
Infatti essendo Dio un Ente conoscibile solo attraverso le parole delle narrazioni mitiche e dei libri sacri , egli, a mio avviso, non è altro che un discorso metafisico sulla causa e sull’origine del mondo. Chi nega Dio oggi, secondo me, nega il Dio del discorso dei libri sacri e delle religioni rivelate, in quanto discorsi non coerenti con le aspettative che l’uomo ripone nel Dio-causa.
Ma se la mia posizione circa l’ateismo contemporaneo ha senso, allora dobbiamo ammettere che il cosiddetto ateo è un uomo che trascorre la propria vita a parlare di Dio.
Pur negandolo, l’ateo pone al centro di ogni discorso Dio che resta così un elemento essenziale della ricerca circa la possibilità della comprensione del reale da parte dell’uomo contemporaneo.
Negare il Dio delle religioni non nega Dio e questo lo sapevano bene i panteisti che mai si dissero atei.
Atei sostanziali sono invece tutti coloro che si ritengono vicari di un qualche profeta e agiscono in aperta contraddizione con i discorsi che professano a parole e smentiscono con le azioni.
Ogni uomo che, pur partendo da una negazione, pone Dio come fulcro di un discorso sulla Verità, dimostra che la strada per la comprensione del Mondo è comunque segnata dall’anelito dell’uomo verso la perfezione, il Bene e l’armonia dell’universo.
Ciò che più sorprende in ultima analisi è che spesso più l’ateo che il credente pone Dio come protagonista del proprio discorso; il credente,infatti, troppo spesso si fida di parole riferite da libri approvati da conciliaboli di uomini.
In ultima analisi io non credo che esista né un Dio né un ateo secondo le definizioni che ho riportato. Io in accordo con Bertirotti credo che esista solo l’uomo con i suoi desideri.

Antonio Cecere                 
  

venerdì 16 settembre 2011

Procida 1799: un'opera storica letteraria mossa da "Umana Pietas"


di Nicola Terracciano

'Procida 1799. La rinascita degli eroi
, (Napoli, maggio 2011, Arte Tipografica Editrice, pp.118) ultima recentissima fatica di Antonella Orefice, è opera letteraria e storica insieme, come sottolineano giustamente i presentatori Giovanni Di Cecca e Renata De Lorenzo e precisa nella nota finale l’autrice. Lo storico romanzo si muove, con efficacia e suggestione, su entrambi i due livelli, usando i due diversi registri del racconto documentato e dell’invenzione letteraria, spesso poetica, incantata e nostalgica dei valori, delle idealità, delle passioni di Libertà, di Democrazia, di Repubblica, che animarono, infervorarono fino al sacrificio estremo gli eroi della Repubblica Napoletana del 1799, e che appartengono e sono custoditi nei penetrali della mente e del cuore da Antonella Orefice. Essi sono nel romanzo incarnati dalla vicenda d’amore dei due protagonisti Bernardo notaio napoletano e commissario della Repubblica per Procida ed Aurora, napoletana misteriosa (nella quale alla fine si svela l’incarnazione della memoria e della storia ed in filigrana l’anima e il destino più profondo della scrittrice e storica Orefice), dai loro dialoghi appassionati e pensosi, dai loro sentimenti, dalle loro speranze, dalle loro angosce, e che fanno da perno all’intervento di altri protagonisti della vicenda del 1799, come ad es. la cara Eleonora Pimentel, Carlo Lauberg, Vincenzo Cuoco, Luisa Sanfelice, Francesco Caracciolo, ma soprattutto i repubblicani di Procida. Sono essi i veri, indimenticabili protagonisti della ricostruzione e del romanzo, dal sacerdote Scialoja al marinaio Calise, alla sua famiglia tutta, nella quale spicca in modo indimenticabile il piccolo Michelino, alla fine trucidato.


Momenti alti e intensi per efficacia si raggiungono lungo la distensione del racconto, spesso inevitabilmente storico, nello scontro padre-figlio, Bernardo e padre, alle pp.61-62 e nei passaggi del rapporto e dei dialoghi Bernardo-Michelino. Suggestive le rievocazioni di atmosfere, luoghi, momenti della giornata e dell’anno dell’amatissima Procida.Ma tutta l’epopea repubblicana procidana coi suoi tanti, sconosciuti inimmaginabili protagonisti si dispone alla fine come scoperta conoscitiva ed emozionale memorabile. Sono essi i veri ‘eroi’ della cui memoria la Orefice intende ridestare la memoria e fa vivere la ‘rinascita’.Si tratta di un’opera preziosa, che articola a livello analitico, locale (la cara, amatissima, Procida) sentieri e approdi di ricerca storica portati avanti con lodevole fatica, ormai più che decennale, dalla Orefice e che sa usare insieme gli strumenti di una comunicazione più attraente di essi con il modulo del ‘romanzo’, capace di attrarre di più il lettore, le nuove generazioni di lettori, che potranno così avvicinarsi con più facilità, immediatezza, calore a quell’esperienza memorabile, che sola può essere l’architrave della speranza di salvezza e di rinascita di Napoli, del Sud, e che potrebbe fare tanto bene alla stessa Italia e dare un contributo alla costruzione doverosa, ardua, difficile, della nostra Europa, cara patria nuova salvifica. Impreziosiscono il libro sia l’accurata edizione tipografica, sia una ricca parte illustrativa, in massima parte a colori, tutta dedicata ai luoghi di Procida più memorabili per il 1799 (dal monumento commemorativo dei Martiri sulla piazza omonima alla lapide interna dei Martiri nella Chiesa di S.Maria delle Grazie, al Castello D’Avalos, prima fortezza e residenza signorile, poi duro, disumano carcere borbonico, ora desolatamente abbandonato, come le memorie che si cerca di distruggere a livello collettivo, agli angoli più cari e suggestivi dell’isola per la Orefice). Ella ritrova in quella piccola, nobile isola (che non a caso onora nel titolo e nella maggiora parte del libro) quel patrimonio storico-ideale che gli è caro e soprattutto quella ‘pietas umana’ verso le spoglie dei Martiri del 1799 che la cruda, immemore, dura, disumana Napoli non sa ancora avere per le spoglie, ancora oggi abbandonate nel fango e nell’acqua, sotto il pronao della Chiesa del Carmine, dei grandi Protagonisti della Repubblica del 1799.

mercoledì 27 luglio 2011

Dove il termine "pazzia" inizia a scemare: Oslo e dintorni - di Nazzario Giambartolomei


(Nella foto: Il papa Urbano II proclama la prima crociata)


Sono spinto a scrivere queste righe da un senso di insoddisfazione per quanto leggo nei giornali, giornaletti e giornaloni. Nessuno ha il coraggio di prendere le redini della situazione e di riconoscere la sua responsabilità nei riguardi della nostra condizione sociale. Dico subito che intendo parlare della recente strage di Oslo, e dico anche subito che non voglio parlare di questa strage. Sembra una contraddizione? Forse, ma provate a lasciar scemare per un attimo le categorie logiche di verità e falsità ed elevatevi sopra di esse. Bene, ora parlerò e non parlerò della strage di Oslo. Leggendo e rileggendo le notizie, ma soprattutto i commenti a riguardo dell'attentatore, vedo che si transita ancora nella dualità di attribuire gli atti del "bombarolo" ad una religione o ad una associazione oppure ad una forma di pura pazzia. È mia opinione che si tratti di due visioni lontane dalla verità che non tengono conto delle sfumature presenti nella realtà.

La prima argomentazione colpa di una religione o di una associazione" è fallace perchè tende troppo a generalizzare e a puntare il fulcro della responsabilità dell'atto criminale non nell'individuo ma completamente nel suo ambiente sociale ed intellettuale (si pensi agli interessi del bombarolo come il templarismo, J. S. Mill, i video-game ...), tanto che tale logica fallace ci porterebbe a dover abolire il pensiero di uno dei più grandi filosofi politici del nostro globo.

La seconda argomentazione "Si tratta di un pazzo, punto e basta" è fallace perchè sovrastima la responsabilità del bombarolo e lo strappa dal suo contesto sociale ed intellettuale. La seconda argomentazione contiene oltretutto la parola magica "pazzia".

La parola "pazzia" tanto (ab)usata dall'italiano medio e superiore, appartiene a quelle categorie concettuali che fanno comodo alla nostra coscienza ma non alla nostra società. Quanto è facile e gustoso dire "Quello è solo un pazzo!" ed allontanare da noi stessi, così, la paura di vivere in prima persona (ma anche di commettere) atti del genere. Quanto è difficile smettere di nascondere i fatti sotto il velo delle parole come "serial killer" o "bombarolo". Siamo sicuri che il commettere crimini atroci si un qualche cosa di estremamente lontano dal nostro vivere?
Bè, innanzitutto potremmo dire, dato che gli atti criminali esistono nella nostra società, essi, in un qualche modo le appartengono. Sì, ma questo non è sufficiente.
Proviamo allora a tornare alle nostre due argomentazioni iniziali e alla visione dualistica che le rende fallaci. Scopriamo infatti, osservando meglio le cose, che anche in questo caso si tratta del limite del dualismo. Pensare a nette distinzioni tra "pazzia" e "sanità mentale" è insoddisfacente e crea grossi danni. Dovremmo rileggere i saggi di Georges Devereux, il quale, benchè di formazione psicoanalitica, non si perdeva nelle teorizzazioni più astruse ma si calava nel concreto e vivido ambiente sociale dell'etnia che aveva preso in considerazione. La grande lezione di Devereux giace nell'aver focalizzato la sua attenzione sulle cosiddette forme di devianza consentite dalla società. Prendiamo un semplice esempio, nella nostra cultura un ragazzo che assume cocaina per endovena commette un atteggiamento deviante nei confronti della legge, ma non nei confronti della sua cultura. Infatti, rispecchierebbe il tipico stereotipo sociale del "drogato". Ed eccoci già arrivati al punto. Il fatto che la nostra cultura o il nostro inconscio (etnico) contenga al suo interno l'imago per inquadrare un individuo che compie un atto deviante nei confronti della legge è la prova che quell'atto non devia dalla realtà sociale. Fino ad ora non ho parlato di Oslo, ma ne parlerò e non ne parlerò adesso. Come conciliare tutto ciò con le due argomentazioni iniziali? Proviamo a guardarle sotto il punto di vista sopra delineato.


1. "È colpa di una religione o di una associazione".

2. "Si tratta di un pazzo, punto e basta!".


Le religioni e le associazioni fanno parte del contesto sociale nel quale è immerso il pensiero di chi commette un atto criminale. Esistono varie religioni, istituzioni e associazioni; alcune sono portatrici di libero pensiero e tolleranza nella nostra società, altre invece tendono a perpetrare vecchi pregiudizi, dogmatismi e totalitarismi. L'atto criminale avviene all'interno di un contesto sociale (quindi anche religioso) e da esso non può essere strappato. Quella che definiamo pazzia, in realtà, come nel caso del bombarolo, è una forma di devianza dal punto di vista della legge, ma non dal punto di vista culturale; basti pensare al fatto che la nostra cultura ha già creato un termine per tali atti come "terrorista" ed ovviamente "bombarolo". Ciò che giace nel livello che si può vedere levitando sopra le categorie "bianco" e "nero" è che la pazzia prende la forma che la nostra cultura le offre. La nostra cultura, offre a colui che vive del disagio psichico un modo di diventare pazzo. Se riconosciamo come semplici pazzi e non invece come persone in un contesto culturale coloro che uccidono persone, l'uccidere persone diventerà una modalità di pazzia. Di converso, ciò viene dimostrato da come spesso si simula la pazzia quando si viene arrestati per un crimine. La persona arrestata tenderà a mettere in atto lo stereotipo del pazzo che ha nella sua mente (mangiare carta, ferirsi con lamette ...).
Per concludere, avendo provato ad elevarci al di sopra del dualismo, possiamo dire che il comportamento cosiddetto deviante non deve mai essere estrapolato dal suo contesto, perchè è proprio quest'ultimo ad offrigli il suo modus operandi. Non dobbiamo quindi escludere a priori la responsabilità di alcune religioni o istituzioni nel discriminare e nel creare nuove modalità di diventare pazzi. Il fondamentalista religioso potrebbe essere un modo di diventare pazzo? Probabilmente si, ma bisogna sempre tener conto di quale cultura si parla senza abusare della logica fuzzy. Di certo è che le discriminazioni vaticane di origine omofoba e quelle leghiste di origine xenofoba presenti nella nostra Italia, non ci difendono da questi pericoli; tantomeno ci difende il far scivolare le discussioni sul tunnel creato dal termine pazzia o il non voler riconoscere che il clima che ci ha cresciuti possa avere grosse responsabilità su quello che siamo e saremo.


sabato 16 luglio 2011

Fare gli italiani - di Giambartolomei Nazzario


“Ahi serva Italia, di dolore ostello, nave sanza nocchiere in gran tempesta, non donna di province, ma bordello! “. (Purgatorio, VI, 76-78)

Apro con le parole di Dante, sommo poeta per eccellenza, anche se guarderò la situazione italiana da un altro punto di vista. L’immagine dell’Italia come un grande bordello è forse una delle più attuali, non perché io disprezzi il piacere della condivisione della carne, ma perché nei bordelli è molto spesso difficile capire chi è “colui che chiede” e “colui che si concede”. Ecco, il bordello rende l’idea di uno scambio continuo di ruoli, un indistinguibile gioco delle parti. Non alluderò quindi alle eroiche imprese del Carlo Martello tutto nostrano. Di quelle poco m’importa; alludo invece al moralismo tutto clericale della cosiddetta (ma mai vista e forse mai esistita) sinistra italiana, che solo di poco si distanzia dal moralismo del vescovo e cardinale Pier Damiani (1007-1072) il quale ammoniva i fedeli dall’usare la forchetta - all’epoca costituita da sole due punte – perché la sua estremità biforcuta ricordava le gambe divaricate di una dolce pulzella. Puntando la propria attenzione sulle vicende di una prostata oramai finita, quella che doveva essere l’alternativa al berlusconismo in realtà si tramutava in una seconda forma di fascismo, pronto a (ri)rafforzare il concordato con la chiesa cattolica. Berlusconismo e/o fascismo a parte, che cos’altro rimane? Qual è l’alternativa ai regimi di Destra, Centro e Sinistra, ammesso che non siano tutte e tre delle false distinzioni geometriche? L’alternativa, a mio parere è solo una. Cioè, fare gli italiani. Fare gli italiani non significa fotterli, anche se questa è la via per rinnovare i volti della politica scelta dalla nostra partitocrazia (Minetti e giù - o sù - di lì). Fare gli italiani significa, come diceva Indro Montanelli, che:

“Noi dobbiamo metterci in testa che la lotta alla corruzione la si fa in un modo solo: cambiando gli italiani, non cambiando le classi politiche. Le classi politiche, anche quelle nuove, si corrompono, è inevitabile.

Ma se proprio volessimo fare un appello dogmatico ad una classe politica incorruttibile, siamo sicuri che essa basterebbe a risolvere i nostri problemi e a migliorare la società? Credo proprio di no. Si tratta di riesumare il pensiero politico di Giuseppe Mazzini, volontariamente dimenticato già in vita. La grande lezione del padre della Patria è quella di cui necessita la nostra nave sanza nocchiere ; una lezione che ci porta a ripensare la classica teoria dei diritti dell’uomo sotto la luce della teoria dei Doveri dell’uomo. Dovere dell’uomo è quello di migliorarsi, di perfezionarsi, di migliorare e perfezionare la sua società, la sua famiglia e la sua Patria. Non si pensi che tutto questo debba essere fatto per il fine della benevolenza di un dio extra-terreno che governa dall’alto; sarebbe un orribile e dannosissimo fraintendimento. Si tratta di vedere il sommo bene laddove vi è un segno di una capacità di miglioramento. Ovvero nella Coscienza e nell’Umanità. In questi organismi viventi giace il fine cui dobbiamo tendere. Fare gli italiani. Forse a questo punto sarebbe meglio dire “Farsi italiani” ma così non funzionerebbe più. Infatti, non tutti (ma voi che leggete non pensiate di essere tra questi) hanno la possibilità e la fortuna di intraprendere un cammino di perfezionamento; non perché si tratti di uomini incapaci, ma perché la loro povertà non gli permette di poter apprezzare il piacere ed il dovere di migliorarsi. Si tratta della cosiddetta piramide dei bisogni di Maslow per la quale i bisogni e i desideri degli uomini sono disposti in forma gerarchica in modo da dover soddisfare i bisogni fisiologici, di sicurezza, affettivi e di stima, prima di poter iniziare ad occuparsi dei bisogni di individuazione, miglioramento e quindi di realizzazione. Per questo motivo il Dovere di coloro che possono “mirare alto” è quello di “migliorare” o di “fare” gli italiani. Ma come? E non sarebbe questa una violenza, una costrizione sugli altri? Per la prima domanda lascio rispondere Giuseppe Mazzini con un passo dei Doveri dell’uomo.

“Ma che cosa può ciascuno di voi, colle sue forze isolate, fare pel miglioramento morale, pel progresso dell'Umanità? Vi potete esprimere, di tempo in tempo, sterilmente la vostra credenza; potete compiere, qualche rara volta, verso un fratello non appartenente alle vostre terre, un'opera di carità; ma non altro. Ora la carità non è la parola della fede avvenire. La parola della fede avvenire è l'associazione, la cooperazione fraterna verso un intento comune, tanto superiore alla carità, quanto l'opera di molti fra voi che s'uniscono a inalzare concordi un edifizio per abitarvi insieme è superiore a quella che compireste innalzando ciascuno una casupola separata e limitandovi a ricambiarvi gli uni cogli altri aiuto di pietre, di mattoni, di calce.”

Tramite l’Associazione possiamo aumentare le nostre forze e diventare costruttori di sogni possibili. A scanso di equivoci, parlare di Doveri non significa disprezzare i diritti ma esprime la necessità di capire che i primi precedono i secondi, ovvero, che senza l’assunzione di una sorta di responsabilità naturale da parte del cittadino nei confronti di se stesso e dell’Umanità non è possibile avanzare verso un vero e proprio Progresso. Dobbiamo quindi cooperare fraternamente per il bene comune e per la coscienza della società. La seconda domanda poneva il problema se tale tentativo di miglioramento degli altri fosse una sorta di violenza nei loro confronti. Si potrebbe dire, infatti, che si vorrebbe costringere alcuni ad essere felici nel modo in cui lo vorremmo noi. Ma non c’è cosa più erronea di pensare ciò. Qui non si tratta di cambiare i gusti delle persone ma di innescare quella fiamma che è in ogni individuo. È la sua coscienza a dover essere accesa. Non si pretende di diventare maestri di qualcuno, ma si cerca di mettere l’individuo nella condizione di essere maestro di se stesso senza altri intermediari. Ma come si conquista questa maestranza? La luce della maestranza di se non sembra trasmettersi per via ereditaria e nemmeno attraverso il linguaggio. La maestranza di se stessi è ineffabile e sfugge al linguaggio. È mia esperienza, però, che si trasmetta tramite il contatto personale, in quello scambio silenzioso di gesti, modi di fare, toni di voce e modalità di pensiero. In conclusione, la maestranza di se stessi può essere trasmessa attraverso modi che incarniamo in noi e che poi vengono percepiti dagli altri. Henry David Thoreau scriveva nella Disobbedienza civile:

“Accetto di tutto cuore l'affermazione, - "Il governo migliore è quello che governa meno", e vorrei vederla messa in pratica più rapidamente e sistematicamente. Se attuata, essa porta infine a quest'altra affermazione, alla quale pure credo, - "Il miglior governo è quello che non governa affatto", e quando gli uomini saranno pronti, sarà proprio quello il tipo di governo che avranno. Il governo è nell'ipotesi migliore solo un espediente; ma la maggior parte dei governi sono di solito espedienti inutili, e tutti i governi sono tali di quando in quando.”

Certo, sarebbe bello avere governi tutti intenti ad insegnare ai cittadini ad autogovernarsi, ma non so voi, io non ne ho mai visti. Per questo, la nostra Missione è quella di unirci fraternamente e lavorare al fine del Progresso dell'Umanità, migliorando noi stessi per trasmettere senza ipocrisie l'idea che il Progresso non può derivare totalmente dall'alto ma che è inevitabilmente in funzione della responsabilità del singolo individuo. Pochi si ricordano che la libertà ha un prezzo e quello che ho appena esposto è il conto (dopotutto non così tanto salato).