Giuramento della Pallacorda

Giuramento della Pallacorda

lunedì 25 aprile 2011

Gli eroi dell Resistenza nel mondo cattolico romano

di Mario Avagliano


“Contribuenti non pagate le tasse. Studenti disertate le scuole. Impiegati attenti alle retate. Ragazze disdegnate di guardare in faccia i tedeschi. Metropolitani date ai tedeschi indicazioni sbagliate. Italiani non giurate”. Così recitava in prima pagina l’edizione clandestina del 20 febbraio 1944 de “Il Popolo”, l’organo di partito della Dc, invitando i romani a boicottare l’occupante germanico e la Repubblica Sociale di Mussolini. La resistenza a Roma non fu solo via Rasella e non vide come protagonisti esclusivi i Gap comunisti.
È ancora poco conosciuta la storia del colonnello Giuseppe Cordero Lanza di Montezemolo e del suo Fronte Militare Clandestino. Comincia invece ad emergere l’apporto della componente cattolica e della popolazione civile al movimento partigiano, grazie a saggi documentati come quello di Riccardo Vommaro, La Resistenza dei cattolici a Roma. 1943-1944 (Odradek, pagine 256, euro 20).
“Il ruolo dei cattolici a Roma in quei mesi è stato molto importante e nello stesso tempo poco analizzato dalla storiografia”, afferma Massimo Rendina, ex partigiano cattolico e presidente dell’Anpi Roma-Lazio. Accanto alla resistenza armata dei Gap e di altre formazioni come Bandiera Rossa e quelle azioniste, “ci fu la resistenza civile di sacerdoti, suore, monaci, medici cattolici e gente comune che nascosero, sfamarono, protessero partigiani, renitenti alla leva, ex prigionieri alleati, ebrei, agirono per isolare moralmente il nemico, organizzarono scioperi per la pace, si diedero da fare per rallentare la produzione od ostacolare lo sfruttamento delle risorse nazionali da parte dell’occupante”.
Le organizzazioni cattoliche (non solo la Dc, ma anche i Cristiano Sociali di Gerardo Bruni e la Sinistra Cristiana di Adriano Ossicini, che contava su mille partigiani) assunsero una posizione di rilievo all’interno e all’esterno del CNL e gli istituti e le case di religiosi, come aveva già messo in rilievo Enzo Forcella nel suo bel La Resistenza in convento, si prodigarono nell’accoglienza e nell’assistenza ai ricercati ed ai perseguitati, compresi i dirigenti dei partiti antifascisti. “A San Giovanni Laterano – sottolinea Rendina - si nascondeva l’intero comando politico e militare del CLN: Nenni, De Gasperi, Ruini, Bonomi, Casati”.
Dalle pagine del libro di Vommaro, accanto alle figure conosciute dei preti partigiani, don Giuseppe Morosini e don Pietro Pappagallo, che ispirarono il don Pietro del film di Rossellini Roma Città Aperta, e di don Paolo Pecoraro, che il 12 marzo del ’44 improvvisò un comizio per la pace e contro i nazisti in piazza San Pietro, emergono altri personaggi eroici del mondo cattolico. Come Don Luigi Occelli e Suor Teresina di Sant’Anna che il 9 settembre 1943, durante la battaglia di Porta San Paolo, allestirono un ospedale mobile per i militari e i civili italiani che cercavano di difendere Roma dall’attacco dei tedeschi.
Scopriamo così che i medici dell’Ospedale Fatebenefratelli e dell’IDI, guidati dal cattolico comunista Adriano Ossicini, ospitarono una radio clandestina e nascosero ebrei fingendo che fossero affetti da un fantomatico morbo o sindrome “K” (dove K stava per Kesserling, il comandante delle forze tedesche in Italia). E le suore benedettine del convento di via Priscilla utilizzarono la tipografia interna per la stampa di carte annonarie e documenti d’identità falsi. Un altro sacerdote, don Gioacchino Rei, in collegamento con l’Azione Cattolica, riuscì ad evitare a molte persone di rimanere vittime del rastrellamento del Quadraro del 17 aprile 1944.
La tesi di Vommaro è che l’attività antitedesca dei cattolici coinvolse anche l’alto clero, compreso Papa Pio XII, che si servì in particolare di due personaggi chiave: Giovanni Battista Maria Montini (il futuro Paolo VI) e Angelo Roncalli (il futuro Papa Giovanni XXIII).
Per l’anniversario della Liberazione un altro bel libro da segnalare, rivolto a tutt’altro pubblico, è Fulmine un cane coraggioso di Anna e Michele Sarfatti (Mondadori, pagine 64, euro 9) che, come recita il sottotitolo, è il tentativo, a nostro avviso riuscito, di raccontare la Resistenza ai bambini attraverso un racconto fiabesco illustrato e alcuni documenti e storie reali, tra cui spicca quella di Franco Cesana, il partigiano ebreo di 13 anni che si finse più grande della sua età per andare a combattere, e morire, con i partigiani per la libertà dell’Italia.

(Il Messaggero, 24 aprile 2011)

mercoledì 20 aprile 2011

Io muoio Libero e per la Repubblica - Vincenzo Russo 1799


Di Antonella Orefice

Altro famoso e celebrato protagonista forense del 1799 alla stregua di Mario Pagano fu Vincenzio Russo, nato a Palma Campania, in provincia di Terra di Lavoro, il 16 giugno 1770. Oltre ad essere avvocato il Russo fu anche medico. Arrestato a Napoli nel 1794 in seguito alla prima congiura operata dai patrioti, andò esule a Milano prima, in Svizzera poi, dal 1796 al 1798.

Ritornò in Italia, a Roma, dove era stata proclamata la Repubblica e fu protagonista della vita culturale della capitale, animando l'attività dei circoli democratici con ardenti conferenze e scrivendo sui nuovi giornali.

Spinse con Lauberg il comandante in capo delle truppe repubblicane francesi a Roma, Championnet, a rivoluzionare anche il Regno di Napoli. Fu protagonista poi dell'esperienza repubblicana napoletana, in qualità di commissario dipartimentale e membro della commissione legislativa, dove si fece notare per il suo costume austero. Coinvolto nel tragico epilogo della Repubblica napoletana, fu giustiziato a Napoli il 3 agosto 1799 e fu sepolto nella chiesa di San Matteo al Lavinaio.

Fu autore di 'Pensieri politici', scritto e pubblicato a Roma nel 1798 che costituiscono l'unica opera scritta dall'autore e si configurano anche come una specie di autobiografia spirituale e morale. Erano apparsi in parte già sul 'Monitore di Roma e in essi si avverte profonda l'impronta di Rousseau, col suo pessimismo storico, con la sua denuncia dei mali dell'umanità, con l'appassionata ricerca di una strada di liberazione, che avesse nell'uomo rinnovato e nella società tradizionale rivoluzionata le chiavi di volta per sciogliere i problemi dell'ingiustizia e della servitù.

Un altro esponente della cultura europea che influenzò Russo fu il filosofo tedesco Leibniz, con la sua teoria delle monadi, che diventa un riferimento essenziale per la teoria dell'individua¬lità.

L'individualità è la qualità fondamentale ed essenziale di tutto ciò che esiste, essa pertanto va riconosciuta, salvaguardata, promossa. L'uomo, nella sua individualità, è il sommo valore ed ha in sé innati, potenzialmente, tutti i principi e tutte le leggi che valgono per la sua crescita morale, intellettuale, civile. Nel rispetto di queste leggi profonde, intime al suo essere, si collocano la vera libertà, la vera moralità e la vera socialità. Non vi sono libertà, moralità, socialità senza legge e senza l'ossequio intimo alla legge. Dal senso di dignità e di grandezza dell'uomo morale, Russo fa discendere la sua convinzione democratica, dell'eguaglianza politica, della sovranità popolare, la critica alla proprietà feudale e monopolistica.

martedì 19 aprile 2011

"È obbligato ogni uomo d'illuminare e d'istruire gli altri". (F. Mario Pagano 1799)


Di Antonella Orefice.

Tra gli avvocati più celebri che hanno fatto la storia della Repubblica Napoletana del 1799 e per essa sono divenuti martiri, il più noto certo e anche il più ricordato è Francesco Mario Pagano.

Nato a Brienza, in Basilicata, l’8 dicembre 1748 da Tommaso ed Anna Pastore, giunse a Napoli all’età di dieci anni per conseguire studi classici. Laureatosi nel 1768, con la morte di Antonio Genovesi fu invitato per un certo periodo a ricoprire la cattedra di etica presso il Real Collegio della Nunziatella, essendo stato indicato dal Genovesi stesso, che lo aveva ben conosciuto in vita, suo ideale successore. Nonostante a ventuno anni fosse già considerato un uomo di gran cultura classica la sua vocazione era quella “forense”. Divenne così presto detto un “avvocato filosofo” dalla cronache giudiziarie per le sue arringhe piene di citazioni classiche ed argomentazioni logiche.

Diviso fra letteratura, giurisprudenza e filosofia, spesso, accomunate fra loro, se non identificate, Pagano scrisse sei tragedie (Gerbino, Agamennone, Corradino, Gli esuli tebani, Prometeo e Teodosio) e una commedia (Emilia).Tradusse dal greco e dal latino. Di natura tra il giuridico e il filosofico sono: Progetto di Costituzione della Repubblica napoletana, Sul processo criminale, Esame politico dell'intera legislazione romana, Discorso sull'origine e natura della poesia, oltre che gli immortali e fondamentali Saggi politici, in due edizioni.

Il cammino della storia, secondo Pagano, va dall'indifferenziato al differenziato, ovvero dall'indefinito al finito. In origine era il genere umano senza popoli, senza nazioni e senza Stati. L'istinto di conservazione, di pace e di progresso portò gli uomini a chiedere aiuto agli altri uomini, secondo un rapporto di reciprocità. Si crearono allora le società civili, rette da regole che furono garanzia di diritti e regolatrici di doveri. Nacquero così le leggi e nacque il diritto, che, perciò, avevano la stessa origine spirituale della poesia, della morale, della filosofia e della religione. Senza le leggi e senza il diritto, come anche senza la poesia, la morale e la religione (al di là delle forme storiche che questa può assumere), l'umanità andrebbe verso l'autodistruzione; al contrario, grazie alle leggi e al diritto si creano fra gli uomini rapporti di intesa e armonia, che, vincendo i "nazionali pregiudizi", possono preparare una umanità unita. Voglia il cielo - esclamava Mario Pagano che, "un tempo, come le varie società e nazioni d'Europa sono ora così unite tra loro per non separabili interessi e costumi, che formano quasi un popolo solo", allo stesso modo "l'America, l'Asia e l'Africa siano di stretti rapporti con l'Europa congiunte". Ma, perché le leggi e il diritto, così come le altre forme dello spirito, possano assolvere a tale funzione, bisogna che siano rispettosi della libertà e della democrazia, e garantiscano la giustizia”.

Mario Pagano, cresciuto oltre che alla scuola ideale di Giambattista Vico, anche a quella reale di Gaetano Filangieri fu naturalmente vicino ai programmi innovatori di Carlo III di Borbone e del suo ministro Tanucci; quindi, deluso da Ferdinando IV, si ritrovò in sintonia con gli ideali della rivoluzione francese e la dichiarazione dei diritti dell'uomo e del cittadino. Nel 1794, perciò, si schierò contro la tirannia di Ferdinando IV, prendendo le difese, nella veste di avvocato, dei tre presunti congiurati Galiani, Vitaliani e De Deo. I tre furono condannati a morte, primi martiri delle nuove idee, mentre Pagano, punito egli pure, perdeva la cattedra di diritto presso l'Università di Napoli, veniva arrestato, condotto in carcere e, quindi, espulso dal Regno.

Vi ritornò solo dopo lo scoppio della rivoluzione napoletana del 1799, essendo stata proclamata la Repubblica. Incaricato di redigere il testo della Costituzione, lo fece cercando di conciliare le istanze della nazione francese con le esigenze della nazione napoletana. Ne nasceva un testo moderato e retto da sano equilibrio, ma non tale, arrivata la reazione, da salvare la vita del suo estensore. Condannato a morte, salì il patibolo il 29 ottobre 1799, con animo imperturbabile e sereno. Vi fu chi lo paragonò a Socrate. "Il suo nome - scrisse Vincenzo Cuoco - vale un elogio. Il suo processo criminale è tradotto in tutte le lingue, ed è ancora uno dei migliori libri che si abbia su tale oggetto. Nella carriera sublime della storia eterna del genere umano voi non rinvenite che l'orme del Pagano, che vi possano servir di guida per raggiungere i voli di Vico". I suoi resti furono seppelliti nella chiesa del Carmine maggiore.

Il Progetto Costituzionale per la Repubblica Napoletana del 1799.

“La libertà non si conquista che col ferro e non la si mantiene che col coraggio. La Libertà di opinare è un dritto dell'uomo. La principale delle sue facoltà è la ragionatrice. Quindi ha il dritto di svilupparla in tutte le possibili forme e di nutrire tutte le opinioni che gli sembrano vere.”

Erano i primi mesi del 1799 quando l’avvocato Mario Pagano presentava al Governo Rivoluzionario della Repubblica Napoletana il suo Progetto Costituzionale adottando la Costituzione della Repubblica Francese maturata dopo gli avvenimenti della rivoluzione del 1789, pur tenendo in considerazione la diversità del carattere morale, delle circostanze politiche delle due nazioni.

La libertà - celebra il testo di Pagano - è la facoltà dell'Uomo di valersi di tutte le sue forze morali e fisiche, come gli piace, colla sola limitazione di non impedire agli altri di far lo stesso. Contro l'oppressione ogni Uomo ha il dritto d'insorgere, il Popolo ha diritto di insorgere, ma quando diciamo Popolo, intendiamo parlare di quel Popolo che sia rischiarato ne' suoi veri interessi, e non già d'una plebe assopita nell'ignoranza, e degradata nella schiavitù, non già della cancrenosa parte aristocratica. L'uno, e l'altro estremo sono de' morbosi tumori del corpo sociale, che ne corrompono la sanità. “

Tutti i doveri dell’Uomo scaturiscono dal principio della Uguaglianza - “Essendo gli Uomini tutti simili ed uguali, ciascuno si deve comportare verso i suoi simili come verso di sé. Il fondamentale dovere, base d'ogni morale, è che ciascuno sia verso gli altri affetto, come è verso di se stesso”.

Dal principio dell’Uguaglianza si sviluppa la base del diritto politico sugli insegnamenti di grandi pensatori quali Gravina, Montesquieu e Rousseau.

La Società viene formata dall’unione della volontà degli Uomini che vicendevolmente si garantiscono i proprio diritti. L’unione delle forze genera la Pubblica Autorità e l’unione dei consigli la Pubblica Ragione la quale, avvalorata dalla Pubblica Autorità diviene Legge. E quindi è un diritto di ogni Cittadino essere garantito dalla forza pubblica, e suo dovere contribuire alla difesa della Patria.

“L'Uguaglianza politica non deve far sì, che venga promosso all'esercizio delle pubbliche funzioni colui, che non ne ha i talenti per adempirle. Il diritto passivo di ogni Cittadino è, secondo la nostra veduta, ipotetico, vale a dire che ogni Cittadino, posto che rendasi abile, acquista il diritto alle pubbliche cariche”.

Il fondamentale diritto del Popolo è quello di stabilirsi una libera Costituzione, cioè di prescriversi le regole, colle quali vuol vivere in corpo politico. La Sovranità è un dritto inalienabile del Popolo, e perciò o da per sé, o per mezzo de' suoi Rappresentanti può farsi delle Leggi conformi alla Costituzione, che si ha stabilita, e può farle eseguire, da che senza l'esecuzione le Leggi rimangono nulle”.

“Il fondamentale dovere dell'uomo è di rispettare i dritti degli altri. L'uguaglianza importa, che tanto valgono i nostri, quanto i dritti degli altri. Ogni Cittadino deve denunziare alle autorità costituite i tentativi degli scellerati contro la pubblica sicurezza, e proporre le accuse de' delitti commessi innanzi ai Magistrati competenti”.

“È obbligato ogni uomo d'illuminare e d'istruire gli altri”.

Queste le linee generali del Progetto Costituzionale di Mario Pagano, sorprendente nella sua modernità e dal quale sono scaturite le nostre attuali Leggi.

Gjorgio Vincenzio Pigliacelli. Ministro e Martire della Repubblica Napoletana del 1799


di Antonella Orefice

Apparteneva certo alla più famosa schiera di giuristi settecenteschi Gjorgio Vincenzio Pigliacelli, e vi apparteneva per scienza e professionalità. A differenza dei soliti paglietta, Pigliacelli, formato nello spirito dell’Illuminismo, fu tra quegli uomini esemplari convinti di poter operare nella situazione politico-istituzionale del regno, favorendo l’avvento della Repubblica Napoletana.

Sono rarissimi i documenti a lui relativi e di conseguenza le opere biografiche, scarse le citazioni, inesistente un ritratto. Ricostruire pertanto un’accurata biografia di Gjorgio non è stata e non è un’impresa facile per alcun ricercatore. Sappiamo per certo che fu un protagonista della Repubblica Napoletana del 1799, la cui partecipazione al Governo Rivoluzionario, in qualità di Ministro di Giustizia e Polizia, gli costò la vita.

Nato a Tossicia, un piccolo paese in provincia di Teramo il 7 febbraio 17512 da Odoardo e Felice Mirti, nei primi anni studiò nella casa paterna, seguito dal padre dottore. Poi, rivelando presto buone capacità intellettuali ed una propensione per gli studi giuridici, seguendo anche il consiglio dello zio Pompeo Mancini, il padre decise di farlo trasferire a Napoli, affinché potesse seguire e perfezionarsi nella disciplina.

Chiaro per dottrine legali, famoso in diritto canonico, difensore perciò dei diritti regi contro le prepotenze di Roma, amatissimo della moderna filosofia, del giusto e libero reggimento, dotto nelle lingue antiche e facile parlatore della francese, fu presidente dell’Alta Commissione Militare e uno de’ membri della Giunta di Legislazione nella Repubblica del 1799. Ministro di Grazia e Giustizia, pubblicò il 29 fiorile l’editto per la numerazione delle vie e per l’abolizione degli stemmi pubblici e privati. (M. d’Ayala, Vite degli Italiani, Napoli, 1999, p. 496 e ss.)

Il dottor Gjorgio Pigliacelli abitava nel terzo appartamento di una casa, che possiede il Real Albergo de Pellegrini al Postume detto il Vico della Strada nova de Pellegrini a porta Medina, e detto D. Gjorgio si serviva di una rimessa dello stesso Real Albergo. Per il piggione di detto appartamento, e rimessa il riferito Albergo sino al dì quattro Maggio anno 1800 era in credito per docati duecento trentatré. (Archivio Storico di Teramo, Fondo Notarile, Notaio V. Magnanimi, busta 753, vol.36, atto del 6/4/1803)

Uomo libero d’ingegno e virtù, Gjorgio viveva la sua professione come una missione, quasi presagendo una morte prematura. Caratterialmente affine agli spiriti liberi del suo tempo, pur provocando dispiacere nel padre, non prese moglie, rinunciando così all’eredità destinata al primogenito. Il dissenso del padre traspare dal testamento datato 1787.

(Odoardo Antonio Pigliacelli) nomina suoi eredi universali, e particolari li Sig.ri Dr. D. Gjorgio Vincenzio, dimorante da più anni in Napoli, e D. Pasquale Basilio Pigliacelli, suoi diletti Figli legittimi, e naturali, e Padrona usufruttuaria la Sig.ra D. Felicita Mirti sua moglie, con godersi tale usufrutto, e Padronanza sua vita durante, vivendo assieme con tutti e due, almeno con uno dei predetti suoi Figli, ma restando da essa il conviverci. E se mai fosse in necessità per governo della propria persona già vecchia, ed acciaccata, dare moglie a detto D. Pasquale Basilio, il che si debba buonamente, e stragiudizialmente fra essi D. Felicita, D. Pasquale concertare, siccome si va prevedendo, stante il non essersi a tanti stimoli risoluto mai il detto Sig. Dott. D. Gjorgio ammogliarsi, esso medesimo D. Gjorgio rimanga istituito nella sola legittima a titolo universale, tanto più che si trova commodo, e ben situato, onde non à bisogno de beni della Casa per vivere comodamente, e siccome all’incontro D. Pasquale si era già incamminato per gli ordini Ecclesiastici, e la successione universale si destinava a D. Gjorgio; onde avendo prevaricato delle medema, viene ad esser proprio, che D. Pasquale abbia più vantaggio per li motivi addotti. (etc..) Archivio Storico di Teramo, Fondo Notarile, Notaio V. Magnanimi, busta 750, vol.20, anno 1787, fogli 56 v-58.

Era tale l’affetto che legava Gjorgio al fratello Pasquale ed alla madre che, nonostante le disposizioni testamentarie del padre, che purtroppo non riuscì a raggiungere a Tossicia se non dopo giorni di viaggio, quando lui oramai era già morto, il nostro avvocato stipulò una procura a favore del fratello, facendo in modo che egli potesse agire legalmente anche a suo nome, dimostrando di avere in lui una illimitata fiducia.

Tornato a Napoli alla sua prestigiosa carriera, come moltissimi altri illuminati professionisti dell’epoca, non fu certo insensibile al fervente clima rivoluzionario, tanto che durante i sei mesi della Repubblica del 1799 ebbe diverse nomine tra cui la più eccellente fu quella di Ministro di Giustizia e Polizia. Dai rapporti di collaborazione e di amicizia con altri giuristi ed avvocati del tempo, tra cui Mario Pagano, si evince l’appartenenza di Gjorgio alla loggia massonica dei Liberi Muratori. Pur se il suo nome non compare nel Notamento dei congiurati giacobini processati nel 1794, rei di lesa maestà e cospirazione, la prova documenta della sua affiliazione alla Massoneria è in un libello ripubblicato a Parigi nel 1832 dove venne citato tra gli appartenenti alla Loggia del Testaferrata.

La repressione della Massoneria, bandita e perseguitata da inchieste ed arresti non solo nel Regno borbonico, ma in tutta Italia fu notevole non solo nell’ultimo decennio del Settecento, ma anche durante i primi anni della Restaurazione ed interessò finanche quegli Stati tradizionalmente più tolleranti e permissivi. Ciononostante, il fuoco continuò a covare sotto le ceneri molto più di quanto comunemente si creda.

Presidente della Società Patriottica fu nominato Carlo Lauberg, un frate scolopio, tra i maggiori chimici napoletani del suo tempo. Durante i sei mesi della Repubblica Napoletana, il Lauberg fu nominato Presidente del Primo Governo Provvisorio. Con la reazione borbonica non fu tra i martiri ma tra gli esuli. Riuscì a riparare a Parigi, dove vi morì il 5 novembre 1835.

In una sera dell’estate del 1793, si incontrarono a Posillipo, sulla spiaggia di Mergellina gli amici che Lauberg aveva convocato: elementi fidati e sicuramente democratici.

Risposero principalmente all’invito giovani avvocati, tra cui è facilmente ipotizzabile anche la presenza di Gjorgio Pigliacelli. I motivi che indussero il Lauberg ad indire la riunione furono dettati dal bisogno di raccogliere tutte le forze democratiche che operavano a Napoli e nelle Province e prepararsi all’azione per realizzare anche a Napoli, come in Francia un governo popolare repubblicano … onde ravvivare i diritti dell’uomo soppressi, rimettere la tranquillità, sopprimere gli abusi, rendersi in tutto liberi e perfettamente uguali ed abiurare… ogni religione come estranea agli ordini di natura e costituire da Principi e dalle Potestà supreme per garantire la loro stabilità.

La proposta del Lauberg venne discussa ed approvata e si decise di costituire un’associazione articolata in sezioni elementari o clubs composti ciascuno da non più di undici membri che non si conoscessero tra loro. Tale organizzazione fu dettata in modo da evitare che qualsiasi associato, sottoposto a tortura, potesse svelare i nomi degli altri associati.

In seguito la Società Patriottica fu suddivisa in due clubs: Lomo (Libertà o Morte) e Romo (Repubblica o Morte). Entrambi operarono attivamente raccogliendo adesioni non solo negli ambienti studenteschi e tra gli avvocati, ma anche tra i militari, dei quali molti giovani ufficiali erano stati allievi del Lauberg alla scuola militare della Nunziatella,.

Tutti i membri della Società avevano giurato odio eterno ai tiranni e molti di essi si proposero di giungere all’insurrezione armata per abbattere la monarchia ed istituire anche a Napoli un governo repubblicano sull’esempio di quello francese.

Intanto Maria Carolina, contando su una fitta rete di spie, continuava la sua spietata opera di persecuzione. I numerosi arresti operati a Napoli provocarono un’ondata di panico in seno alla Società Patriottica. Dominati dal terrore e dalla sofferenza delle torture, dimenticando i loro giuramenti, quasi tutti gli arrestati confessarono nei più dettagliati particolari le loro attività di congiurati, fornendo elementi e nomi, ponendo in condizione gli inquirenti di ricostruire in molti suoi particolari l’attività svolta a Napoli dal movimento giacobino.

Nonostante il fallimento della congiura del 1794, che vide in Emanuele De Deo, Vincenzo Galiani, Vincenzo Vitaliani e Tommaso Amato i primi martiri, le idee di Libertà e Uguaglianza si intensificarono nel cuore e nelle menti dei giacobini illuminati, e gli anni di detenzione a cui furono costretti taluni patrioti fecero maturare un odio profondo ed irrefrenabile contro la monarchia. La storia proseguì con i regnanti che nel gennaio del 1799 vigliaccamente scapparono da Napoli per Palermo, lasciando la capitale nelle mani dei lazzari, mentre i Francesi arrivavano con la loro Libertà, o almeno così sperarono quei pochi valorosi eroi asserragliati in castel Sant’Elmo quando, felici proclamarono la Repubblica Napoletana il 21 gennaio.

Nel 1799 Gjorgio è all’apice della sua carriera professionale. Rinomato per le sue doti di avvocato era notissimo a Napoli ed in tutto il Regno delle due Sicilie e certo un uomo come lui non poteva mancare di assumere cariche politiche all’indomani della proclamazione della Repubblica. Fu dapprima Giudice nella Commissione Militare, poi rappresentante della Nazione nella Commissione Legislativa, ed infine il 18 aprile fu nominato Ministro di Giustizia e Polizia.

Fu promotore di diversi editti tra cui l’imposizione del coprifuoco, tendente a salvaguardare l’ordine pubblico, contro la fabbricazione e la detenzione di armi, e il discusso decreto emanato il 18 maggio col quale imponeva la numerazione delle vie e l’abolizione degli stemmi pubblici e privati. Purtroppo quest’ultimo decreto, teso ad eliminare i simboli del vecchio regime, finì per procurare danni inestimabili ad opere d’arte ed iscrizioni di grande valore storico.

Caduta la Repubblica fu tra i primi ad essere ricercato.

Secondo il Diario Carlo De Nicola, l’arresto si colloca al 4 agosto e Gjorgio risulta tra coloro che calarono dalle navi incatenati e con il cannale al collo furono portati nel Castel Nuovo.

Fu giustiziato per impiccagione in piazza Mercato il 29 ottobre e con lui ascesero quel giorno al patibolo anche i celebri Domenico Cirillo, Mario Pagano ed Ignazio Ciaja, tutti seppelliti nei sacelli del pronao nella vicina chiesa del Carmine Maggiore.

Lo storico Taddeo Ricciardi, sulla base dei pochi ultimi documenti fornitigli dagli eredi di Pigliacelli ricostruì quei drammatici mesi intercorsi tra l’arresto e l’esecuzione della sentenza di morte.

La notizia dell’arresto di lui giunse a Tossicia, ove viveva ancora la vecchia madre del martire in compagnia dell’altro figliuolo Pasquale. Questi per non far morir di cordoglio la veneranda donna, occultò la disgrazia di Gjorgio, e pensò al modo come vedere ed aiutare l’amato germano, che prevedeva serbato a tristissima fine. Egli, perciò, una notte, indossati gli abiti di frate zoccolante, prese la via di Napoli, munito di alcune commendatizie, date a lui da un guardiano del monastero di Tossicia. Giunto nella nostra città, i frati del Carmine trovarono modo di fargli vedere il fratello detenuto nel vicino castello. Questo incontro doloroso avvenne prima che il grande giurista ascendesse le scale del patibolo. Fu in questa visita che Gjorgio Pigliacelli dette al fratello alcuni titoli bancari, che aveva potuto sottrarre alle ruberie borboniane. Fu in questo fatale abboccamento che il martire consegnò al germano un brindisi, da lui improvvisato la sera innanzi, in un banchetto (ultimo affettuoso banchetto!) tenuto in carcere con Pagano, Cirillo e Ciaja!… In questo colloquio, il cittadino insigne riferì al dolente fratello le torture a cui lo avevano sottoposto i vili giudici di un monarca spergiuro!

L’ultimo brindisi dei martiri: “Ode alla morte”.

Amici la morte

Di Gloria la testa

Ci cinge, al tiranno

Darà la tempesta

Or che del viver nostro

Il termine è vicino

Tuffiam, tuffiam nel vino

Quest’ultimo dei dì!…

E dal nostro sangue

Accesi i fratelli,

Saranno gli eroi

In gloria più belli!

Or che del viver nostro

Il termine è vicino

Tuffiam, tuffiam nel vino

Quest’ultimo dei dì!…

Se muore il tiranno

Per sempre egli muore

Quel Dio infinito

Di Patria è l’amore!

Or che del viver nostro

Il termine è vicino

Tuffiam, tuffiam nel vino

Quest’ultimo dei dì!…

Di sangue innocente

Si bagna la terra,

L’affetto di Patria

Non cede alla guerra!

Or che del viver nostro

Il termine è vicino

Tuffiam, tuffiam nel vino

Quest’ultimo dei dì!…

Per esso un altare

L’Italia pur tiene,

La forca, i martiri,

Le dure catene.

Or che del viver nostro

Il termine è vicino

Tuffiam, tuffiam nel vino

Quest’ultimo dei dì!…

La Giunta crudele,

Di re più feroce,

Non resta:distrugge

Insieme alla croce!

Or che del viver nostro

Il termine è vicino

Tuffiam, tuffiam nel vino

Quest’ultimo dei dì!…

S’inganna il tiranno,

E provasi invano

La patria spegnere

Nel sangue umano!

Or che del viver nostro

Il termine è vicino

Tuffiam, tuffiam nel vino

Quest’ultimo dei dì!…

Moriamo contenti,

O amici insieme,

Verranno alberi

Dal nostro seme!

Or che del viver nostro

Il termine è vicino

Tuffiam, tuffiam nel vino

Quest’ultimo dei dì!…

Questo non spegnesi,

Non teme perigli,

Ma giura vendetta

Ai perfidi Gigli!

Or che del viver nostro

Il termine è vicino

Tuffiam, tuffiam nel vino

Quest’ultimo dei dì!…

Tratto da Gjorgio Vincenzio Pigliacelli, Avvocato tra Massoneria e Rivoluzione, Ministro e Martire della Repubblica Napoletana del 1799, a cura di Antonella Orefice, ed. Guida, Napoli 2010

lunedì 18 aprile 2011

Antonella Orefice - La Penna e La Spada

ANTONELLA OREFICE, La penna e la spada. Particolari inediti su Eleonora de Fonseca Pimentel ed Ettore Carafa conte di Ruvo, Napoli, Istituto Italiano per gli Studi Filosofici - Arte Tipografica, 2009.

Gjorgio Vincenzio Pigliacelli. Avvocato fra Massoneria e Rivoluzione Ministro della Repubblica napoletana del 1799, Napoli, Guida, 2010.

Recensione di PIERSANDRO VANZAN (Gesuita, scrittore e redattore di Civiltà Cattolica, docente Pontificia Università Gregoriana)

L’importanza dei libri che presentiamo sta nel fatto che riportano alla luce una parte notevole ma trascurata della storia del Mezzogiorno d’Italia. Non a caso essi sono il frutto di ben 12 anni di ricerche, che l’A. ha portato avanti con passione e sacrificio, ma che alla fine — come dopo lunga gestazione e doloroso travaglio — ha partorito qualcosa che l’ha ben ripagata. Infatti, rimettere in giusta luce Eleonora, Ettore e la Rivoluzione napoletana del 1779 significa realizzare quanto auspicò Eleonora, salendo il patibolo in Piazza del Carmine a Napoli — Et haec olim meminisse juvabit (E forse un giorno gioverà ricordare tutto questo) — o quello che fu il motto dei Carafa: Hoc fac et vives (Fa’ questo e vivrai). Come scrive l’A. nell’introduzione, «ho affrontato questi lunghi anni di ricerche come una missione. Dopo essermi imbattuta in una serie di contraddizioni relative a topiche e mistificazioni che mi saltavano agli occhi via via che esaurivo la ricerca bibliografica, soprattutto sulla Pimentel, ho sentito forte l’esigenza di andare alle fonti documentarie, le uniche in grado di fare chiarezza su una serie di dubbi che le tante letture mi avevano fatto sorgere». E immergendosi nella polvere degli archivi, toccando con mano documenti dalla scrittura a volte fastosa, altre fitta, quasi illeggibile, mai si lasciò vincere «da quanto il custode del tempo rendeva incomprensibile». Era come un avventurarsi per sentieri serpentini, interminabili, intricati, dove il rigore dello storico è messo a dura prova dall’intreccio esoterico, storia e leggenda si fondono insieme, tanto da non distinguerne più i contorni.
Ma perché Eleonora, e perché Ettore? Come l’A. stessa confessa, «è stato un continuo divenire il mio rapporto con loro, che amo chiamare i miei amici del 1799, […] e nel tempo sono entrambi divenuti troppo coinvolgenti per ridurli a un mero argomento di studio. Piuttosto direi la continua scoperta e riscoperta della profondità di un io da disseppellire dalla polvere dei secoli, frammento per frammento, pensiero su pensiero». E così le pagine della prof. Orefice ci restituiscono non tanto un’idealizzata o malfamata donna settecentesca — nella letteratura giacobina, infatti, è «una martire santificata e sacrificata per la causa rivoluzionaria» mentre, in quella borbonica, è «un’esaltata mentale, un esempio negativo di donna che pur di fare storia ha dissacrando con un divorzio i canoni di una donna rispettabile: marito, chiesa e sacra famiglia» —, bensì una Eleonora ben viva, che attraversa un tempo che non le appartiene e spicca come un personaggio venuto dal futuro e costretto a vivere nel passato. Una donna coraggiosa, umiliata in una vita di coppia infernale, con un figlio mancato e qualche amore impossibile serbato nel cuore. Una donna a cui quella vita non ha dato modo di realizzare i desideri più dolci, ma ha concesso di morire libera e sola, fuori da quel tempo. E «la penna» è stato l’unico dono concessole e l’arma che usò tanto per alleviare la sofferenza del figlio morto, quanto per difendere la causa rivoluzionaria. Ma oltre gli scritti, di Eleonora ci resta l’esempio di vita, il coraggio con cui si è aggrappata a quello che alla fine è stato il suo unico bene: la libertà. Libertà di pensiero, di azione, libertà di vivere andando controcorrente, precorrendo i tempi. È quanto si percepisce nelle righe del Monitore, periodico da lei fondato, in cui esalta la Rivoluzione, l’emancipazione femminile e adombra Ettore Carafa, il conte di Ruvo, altro emblema della repubblica napoletana del 1799.
Ecco: Ettore ed Eleonora: due facce della stessa medaglia, uniti, indivisibili, profondamente diversi ma ideologicamente uguali. Ettore, come Eleonora, precorre i tempi: è uno spirito libero, ambizioso, deciso, che nessun ostacolo può fermare. Un uomo che arruola nella sua legione i prevetarielli a condizione che in guerra sapessero usare in tutti i sensi, come lui stesso diceva, «le palle». Un uomo mosso da esuberanza giovanile, dal volto ingrugnato, un carattere presuntuoso, ostinato e rude, ma tenero verso gli animali: tanto da insegnare al suo cavallo a salire le scale del palazzo. Un cavaliere romantico che protegge monache e fanciulle, che ama vestirsi alla francese, coi capelli corti, i calzoni lunghi e il panciotto rosso; che indossa la divisa da generale della Repubblica, organizza balli di società mentre cospira con la Massoneria, canta la Carmagnola coi soldati, preoccupandosi delle riserve di olio e vino. Ama profondamente ma segretamente Eleonora e, da gentiluomo, nulla lascia filtrare: troppo sconvenevole per un affascinante nobile di 31 anni libero e una donna ultra quarantenne con un divorzio alle spalle. O forse un amore troppo intenso e incomprensibile per chi sta al di fuori, e allora meglio tenerlo custodito gelosamente nel cuore.
Ma dopo questo coinvolgente — perché vero — «romanzo storico-piscologico» su Eleonora ed Ettore, l’A. si è impegnata in una ricerca non meno puntigliosa e interessante, ma di tutt’altro respiro e fascino.
Senz’altro pochi conoscono Gjorgio Vincenzio Pigliaceli, Avvocato, massone e Ministro della Repubblica napoletana del 1799, sicché l’A. si concentra quasi esclusivamente sul ruolo della Massoneria tra le pieghe del regno borbonico e, quindi, volutamente sorvola su altri aspetti (Massoneria e Chiesa, ecc.). La parola Massoneria, che negli ultimi 30 anni ebbe risonanze tutt’altro che positive — specie con i fatti della Loggia P2 —, ha invece una genesi di tutto rispetto, benché non priva di risvolti negativi, specie nei confronti della Chiesa. Di fatto, non si può dimentica il ruolo che la Massoneria ha avuto in molte parti d’Italia — come nel resto d’Europa — sia nel diffondere le idee scaturire dalla Rivoluzione francese, sia nell’applicare le conseguenti teorie politiche e sociali contrapposte ai vecchi schemi delle grandi monarchie europee. La ppo sesneria e Rivoluzione Minsitro della Repubblica napoletana del 1799Massoneria ha dunque una storia ricca e dignitosa, specie nella realtà napoletana, come riferisce l’Orefice che, in questa nuova fatica — al solito puntuale nella ricerca e selezione delle fonti —, ritrae la figura di Gjorgio Vincenzio Pigliacelli, giurista nato in provincia di Teramo nel 1751. Fin dai primissimi anni di studio e poi della professione il giovane dimostrò una vera vocazione per la sua professione, tanto da considerarla prioritaria rispetto ad altri aspetti della vita. Non si sposò e proprio per questo rinunciò all’eredità paterna, come stabilivano le leggi di allora. Come molti illuministi, anche la vita di Giorgio Pigliacelli s’intreccia con le vicende rivoluzionarie di Napoli, ed è proprio in quel momento storico che egli assume nella Repubblica napoletana svariati compiti, tra cui quello di Ministro di Giustizia e Polizia. E anche lui, come la Pimentel e altri, finirà impiccato nella Piazza del Mercato nell’ottobre 1799.

Attraverso la riproposizione di cinque documenti a stampa settecentesca proprio dell’avvocato napoletano finora inediti e conservati presso la Biblioteca della Società Napoletana di Storia Patria, ottimamente riprodotti nelle pagine di questo lavoro, A. Orefice ricostruisce la vita di G. Pigliacelli e il suo legame con la massoneria napoletana, nello specifico la Loggia denominata “Libera Muratoria”: per i tanti giovani professionisti di allora, la massoneria rappresenta anche per il giovane avvocato il luogo, lo strumento tramite il quale poter manifestare il proprio spirito repubblicano. Massoneria, d’altro canto, in quel periodo è sinonimo di patriottismo, libertà e indipendenza: nel caso di Napoli dalla dominazione borbonica. Certo, l’A. non nasconde gli aspetti più controversi della Massoneria napoletana, quali per esempio l’interesse per le pratiche esoteriche e per l’alchimia e il conseguente scontro tra la schiera degli illuministi e «il curialismo conservatore dei Gesuiti» (p. 22), ma non affronta — e forse lo spazio non glielo permetteva — le varie dietrologie. Si concentra invece sul rapporto tra le diverse Logge e lo spirito repubblicano in veloce espansione nelle classi intellettuali napoletane. Perciò l’A. si dedica alle vicende di Giorgio Pigliacelli — personaggio emblematico di quel particolare momento storico napoletano —, ma proponendo alla fine una rapida ma esauriente carrellata di quanti furono definiti «martiri» di quel sogno che fu la Repubblica napoletana. E così, mentre apprendiamo le vicende di un giovane intellettualmente preparato e insieme animato da ideali di libertà e patria, abbiamo un’immagine più completa di quello che fu ruolo e destino della Massoneria napoletana, perseguitata da leggi durissime, simbolo però di uno spirito mai domo, capace anche di sacrifici estremi, come avvenne per Giorgio Pigliacelli e per tanti altri giovani di allora. Un lavoro accurato riesce a «ricostruire un periodo storico oscurato dalla damnatio memoriae inflitta dalla monarchia borbonica […]. Alla Orefice va il grande merito di aver ancora una volta fatto conoscere la vera storia della Repubblica Napoletana del 1799 in maniera chiara e oggettiva» (p. 7 s).

(La Civiltà Cattolica. 6 novembre 2010)