Giuramento della Pallacorda

Giuramento della Pallacorda

mercoledì 29 giugno 2011

L’albero della libertà. di Antonio Cecere

L’albero della libertà.

La metafora della società moderna e l’emblema della comunità atavica.




Non est potestas nisi a Deo”, con questa formula contenuta nella lettera ai romani, San Paolo afferma che l’autorità di chi governa una società è derivata direttamente da Dio. Questa formula non si preoccupa di stabilire chi debba scegliere la forma dello stato o chi debba comandare entro quella forma, ma ci dice che l’autorità del sovrano ha un’ unica fonte: Dio. Questa idea fu preminente dalla caduta dell’impero romano fino al XVI secolo, dopo che il concetto di auctoritas era passato dalla repubblica romana al princeps con l’avvento di Ottaviano al potere. Nel III secolo, il potere del principe diventava l’unica fonte del potere e l’idea romana di potestas si riferiva, ormai, semplicemente, alla definizione di potere unico e assoluto.
Con il diffondersi del Cristianesimo, alla caduta dell’impero romano, la Chiesa aveva posto la questione dell’autorità del potere, che non poteva avere altra fonte che quella di Dio. Con questa affermazione, il Papa cattolico trovava, per sé e per la propria istituzione, un ruolo di mediazione fra Dio e il potere politico, ponendosi come unico interprete della fonte originaria della sovranità. Con l’affermazione di S. Paolo nella I lettera ai Romani, il potere politico era direttamente discendente dalla volontà divina e la chiesa si poneva su un piano superiore. Con Gelasio I e la sua lettera all’imperatore bizantino Anastasio I (494), comincia il dualismo fra papato e impero per la supremazia del potere in terra. È soltanto in epoca moderna che il concetto di autorità diventa sinonimo di potere legittimo, ovvero quel potere che è retto da un insieme di leggi e regole universali e razionali. I filosofi dell’età moderna, invece di pensare ad una legge dettata da Dio, immaginano un ipotetico stato di natura, antecedente ad ogni associazione o comunità umana. In questo stadio immaginario della evoluzione umana, non esiste nessun tipo di legame fra i singoli, i quali non sono soggetti ad alcuna autorità politica ed obbediscono unicamente alla ragione o alla legge naturale. In questo stadio l’uomo vive una condizione di uguaglianza in virtù del fatto che per natura nessuno ha il diritto di comandare sugli altri.
Il passaggio da questa condizione di uguaglianza e di libertà da ogni imperio ad una condizione di socialità, con conseguente assoggettamento di ognuno a regole comuni e la perdita della originaria uguaglianza, è conseguente all’istituzione del contratto sociale. L’assoggettamento avviene per necessità o volontariamente, comunque, in tutti e due i casi, ciò che lega gli uomini fra loro è un patto che fonda l’obbligo all’obbedienza degli individui a chi detiene la sovranità. In questo caso il principio dell’obbligo sta nell’impegno che ognuno contrae con gli altri, spontaneamente o necessariamente; il fine di questo patto è fondare la società politica. Questi autori distinguevano due tipi di origine per la società civile: dalla conquista e dal libero assenso. La sovranità, in tutti e due i casi, acquisisce un fondamento valido: il patto è il fondamento della sovranità di origine umana.
Attraverso questa riflessione, è evidente che questa tradizione considera la sovranità come se risiedesse in potenza in ogni uomo, l’alienazione volontaria di questa sovranità, con tutta la propria libertà naturale viene posta a favore di un uomo o di un’assemblea . Gli individui danno vita, così, ad un ente morale che è sovranità intesa come un attributo che deriva da ognuno e si pone sopra tutta la comunità.
Con questa rapidissima analisi storico-teorica, abbiamo visto che la modernità si connota per quella cesura, nel pensiero umano, per cui l’umanità diviene artefice del proprio destino. Il potere politico ottiene nuovi significati, infatti, la teoria del contratto sociale forniva ai sovrani un vantaggio evidente: avendo ricevuto questi l’autorità direttamente dal popolo, con un’alienazione volontaria della libertà, il loro potere veniva a configurarsi come assoluto e legittimo allo stesso tempo.
Ma la questione più rilevante, a nostro avviso, riguarda la prospettiva assiologica che si impone nel pensiero moderno circa la possibilità che la volontà libera dell’uomo diventi il paradigma che funge da modello per attingere l’universalità e l’unità all’interno della stessa comunità politica.
Se per i teologi era Dio che garantiva la generalità e la bontà dell’ordine nella natura e nella società, dalla modernità in poi la generalità e la garanzia dell’ordine della società politica passano attraverso la realizzazione della natura umana in un contesto sociale frutto dell’unione, in tutto ciò che li accomuna. Ora tutte le volontà particolari si elevano in un’unica volontà generale. La modernità in pratica, attraverso i suoi nuovi modelli politici, evidenzia da un lato che la vecchia società degli ordini e della nobiltà è delegittimata da un deficit di fondamento in quanto potere,e da un altro lato mette in luce che la politicizzazione della società civile offre il materiale per la progettazione di un ordine politico fondato sull’accordo di tutti in vista di un beneficio per ognuno. Questo paradigma rappresenta in modo specifico la metafora del passaggio dal vecchio al nuovo ordine, rappresenta anche l’avvento di una razionalità che sostituisce ogni spiegazione metafisica, tradizionalista o divina del potere politico.
Questo passaggio ideale e normativo apre però una serie di questioni inerenti il rapporto tra individuo e comunità politica di non facile lettura. Esiste infatti il problema della tensione tra la libertà dell’individuo rispetto la comunità e la libertà degli individui in quanto comunità politica. L’irruzione dell’individuo nella scena politica ha generato un effetto domino che ha reso la modernità il periodo delle rivoluzioni politiche e ha posto l’autonomia individuale quale presupposto del’intera teoria politica. Parlare di modernità in relazione alla politica vuol dire parlare della teoria democratica, come ha sottolineato magistralmente Alberto Burgio[1] : “ la legittimità di un sistema di potere implica il consenso di coloro sui quali il potere sarà esercitato. […] lo spirito moderno si riflette su queste teorie, nella misura in cui i soggetti chiamati ad esprimersi sono gli individui […]”.
Ma se è vero che le teorie moderne fanno partire la loro legittimità dalla natura umana e che l’assenza della dimensione teologica è evidente nella sostanza del dibattito filosofico moderno, resta problematica la comprensione del vincolo comunitario a partire da queste premesse assiologiche.
Alla frattura ideologica, come sappiamo bene dalla storia, è seguita una frattura politica e sociale. Il mutamento delle condizioni culturali ha generato una serie di rivoluzioni politiche che ebbero nella rivoluzione francese il culmine di un processo che in realtà era cominciato già con la rivoluzione tecnologica e con l’avvento delle scoperte dei nuovi mondi. L’importanza della rivoluzione francese sta molto nella sua natura di rivoluzione politica connotata quasi interamente da un processo ideale e culturale. La battaglia per il potere politico divenne la battaglia per l’emancipazione della nuova idea di uomo e per la legittimazione dell’idea democratica. La rivoluzione in Francia scoppiò sulla base di tre principi filosofici: libertà, uguaglianza e fratellanza. Se sui concetti di libertà ed uguaglianza è stato scritto un vero fiume di parole che hanno finito per connotare la rivoluzione borghese come l’esaltazione dei diritti civili e della partecipazione di ognuno alle deliberazioni pubbliche, non altrettanto è stato fatto per descrivere il concetto di fraternità alla luce della nuova realtà post rivoluzionaria. Il problema nasce dal fatto che la frattura culturale con l’ancien regime comportò una frattura anche nell’idea di comunità. Una volta distrutta la fraternità di natura confessionale, che dopo la pace di Augusta( 1555) fu esasperata dal paradigma Cuius regio, eius religio , e una volta divelti i simboli delle tradizioni politiche assolutiste, i promotori della rivoluzione democratica si trovarono dinnanzi al problema di ricostruire un collante fra i nuovi cittadini, e soprattutto si dovettero preoccupare di innalzare nuovi simboli per consentire ad ognuno di riconoscere un comune emblema di appartenenza.
Crediamo sia importante soffermarci su questa ultima analisi per sottolineare che il concetto di popolo, dopo la rivoluzione, non ha nulla di etnico, non risponde a logiche di tradizioni culturali: il popolo diventa l’unione delle libere volontà intorno a un progetto politico condiviso. Questa idea del popolo, che si identifica con il momento deliberativo comune, necessita di una nuova struttura di simboli e rituali per ritrovare un unità e l’identità condivisa. Per quanto noi siamo convinti che il contributo intellettuale di Jean Jaques Rousseau alla rivoluzione francese sia stato travisato sia dagli storici e sia dagli stessi rivoluzionari, dobbiamo al filosofo ginevrino la prima formulazione dell’idea di Religione civile. Durante il periodo della rivoluzione francese ci fu uno sforzo per sostituire i vecchi linguaggi e i vecchi simboli del popolo francese con simboli che potessero dare una nuova identità al popolo repubblicano.
Per quanto né Rousseau né i promotori della rivoluzione repubblicana avessero le conoscenze antropologiche dei successivi studiosi[2], resta un episodio di straordinaria intuizione l’idea dell’albero della libertà.
Grazie ad antropologi come Durkheim noi oggi possiamo accettare l’idea che la “religione è cosa eminentemente sociale[3]” , e che tutto l’impianto simbolico, i rituali le credenze e i linguaggi religiosi esprimono in realtà la rappresentazione della collettività. In pratica parlare di religione vuol dire parlare del sentire comune di una società. Questo problema fu affrontato dai repubblicani cercando di ricreare un sistema solidale di credenze e rituali tali da generare una nuova idea di sacro per unire i cittadini intorno a nuovi emblemi e di conseguenza separare i repubblicani dal resto degli uomini non appartenenti alla nuova società.
Questa è da sempre lo scopo delle religioni, ovvero creare quello spazio sacro entro il quale, ogni uomo, legato a una stessa idea, si senta unito con altri e diviso da tutto il resto dell’umanità.
A questo scopo i rivoluzionari francesi presero ad innalzare gli alberi della libertà in ogni municipio annesso alla causa repubblicana. Questo uso richiamava quanto già fatto dai rivoluzionari americani anni prima che avevano visto in questa operazione una simbolica volontà di rinascita del popolo americano.
Approfondendo il significato di questa operazione possiamo certo dire che si tratta di un vero e proprio sistema totemico. Così come succedeva nei popoli non civilizzati, ogni clan possedeva un proprio totem intorno al quale tutto il popolo si riuniva e che diventava l’emblema comune per tutti.
Tutta la vita sociale e politica del clan avveniva intorno al totem. Tutti i riti di passaggio venivano celebrati sotto il totem, che diveniva il luogo dove le generazioni si trasmettevano le conoscenze. Il totem diventava così l’origine della vita morale di un popolo.
La comunità e l’idea di sacro si unificavano nel totem e tutto prendeva senso all’interno dei riti e delle usanze sancite intorno all’emblema comune.
Per questo motivo la nuova era aveva bisogno di ripristinare un sentimento religioso che ripartisse dalla comunità nel suo nuovo sentire comune: l’idea di libertà.
Le rivoluzioni del settecento furono movimenti che tentarono una radicale trasformazione dell’uomo e della società. Non si può pensare al periodo che va dalla rivoluzione americana a quella napoletana senza sottolineare che, ad ogni tentativo di riformare la società, ci fu il tentativo di riformare l’uomo sin dalle radici. Se i primi alberi furono dei simil totem, successivamente furono piantati veri e propri alberi nei centri cittadini proprio a rimarcare il valore unificante e simbolico che gli alberi ispirano agli uomini.
Sin dai tempi più remoti ogni popolo aveva un albero che rappresentava nel tempo l’unità e la continuità morale e civile dell’intera comunità.
Per i greci antichi ogni divinità era associata ad un albero che ad essa veniva consacrato; gli egiziani avevano il loto, i greci l’olivo ed il platano, gli indiani il fico, gli ebrei la palma, i romani la quercia e per molti la vite era la pianta della liberazione. Nel periodo dei fasti dei liberi comuni lombardi, ogni comunità aveva sacro il proprio albero che spesso veniva rappresentato negli emblemi araldici delle famiglie nobili del posto.
Ripristinare l’idea dell’albero come emblema della comunità politica voleva rassicurare il popolo che la novità politica intrisa di libertà e uguaglianza si legava alle radici naturali della terra e allo spirito di una religiosità atavica. Questo messaggio simbolico cercava di legare la comunità ad idee cosmopolite e nuove attraverso simboli arcaici e archetipici. Associare l’idea repubblicana alla quercia per trasmettere l’idea ad ognuno che Repubblica significa comunità fiera, ampia, forte resistente e soprattutto per stabilire un senso di appartenenza. Collegando la quercia all’idea di Repubblica si cercò di far visualizzare ai cittadini l’intimo legame che sussiste fra la modernità delle idee repubblicane con la persistenza del collegamento che l’umanità trattiene con la natura. La riscoperta della natura e lo studio della botanica avevano offerto materiale al progresso della ricerca scientifica e avevano trovato nuovi fondamenti per la riforma della società politica.
Ancora oggi partiti politici e sette religiose usano sovente piante autoctone per sintetizzare un comune sentire fra gli ideali e l’appartenenza del gruppo ad un dato territorio. Il legame stretto fra l’evoluzione della polis e la devozione che l’uomo sente per la natura è intrinseca ed inscindibile. I primi linguaggi, i primi riti sociali e tutte le trasformazioni delle nostre società sono passate e sono mutate sotto il benevolo sguardo di madre natura.
In un frammento postumo[4] J.J. Rousseau scriveva così: “ all’ombra di vecchie querce un’ardente giovinezza dimenticò gradualmente la propria ferocia, ci si familiarizzò a poco a poco gli uni con gli altri; sforzandosi di farsi capire , si imparò a spiegarsi. Qui si fecero le prime feste; i piedi saltellavano di gioia, il gesto sollecito non bastava più, la voce l’accompagnava con toni appassionati, il piacere e il desiderio, confusi insieme, si facevano sentire a loro volta. Qui fu insomma la vera culla dei popoli”.

*Articolo pubblicato su Phyto Journal n.5 sett-ott 2010


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[1] Alberto Burgio, Per un lessico critico del contrattualismo moderno, La scuola di Pitagora editrice, Napoli 2006, p. 25.
[2] Rimandiamo agli studi fondamentali di Renè Girard, La violenza e il sacro, trad. it. Di Ottavio Fatica e Eva Czerkl, Adelphi, Milano 2005; Emile Durkheim, Le forme elementari della vita religiosa, trad.it. di Claudio Civitali, Maltemi editore, Roma 2005.
[3] Emile Durkheim, Le forme elementari della vita religiosa, cit. p.59
[4] J.J. Rousseau, Saggio sulle origini delle lingue, a cura di P. Bora, Einaudi, Torino 1989, p. 64

lunedì 20 giugno 2011

Procida 1799 - La Rinascita degli Eroi - (Arte Tipografica Editrice 2011) Una nuova opera di Antonella Orefice


Dopo “La Penna e La Spada” ed altri saggi storici sul 1799 napoletano, Antonella Orefice, partendo dalle cronache del Monitore Napoletano racconta in questo suo nuovo lavoro i fatti che sconvolsero l’isola di Procida durante i mesi della Repubblica napoletana. Così come scrive nell’introduzione Renata De Lorenzo, l’Autrice, incrociando storia e letteratura, racconta realisticamente un’atmosfera diffusa e ci dà una rappresentazione del passato, a metà tra il romanzo e la tragedia. Procida, ove “la libertà era durata poco più di due mesi”, è un microcosmo della rivoluzione, capace di rifletterne tutte le attese e le contraddizioni: speranze, timori, sofferenze, complessi equilibri sociali, coinvolgimenti e ripulse. Breve è la vita della repubblica nell’isola: solo 64 giorni. Breve è anche la vita del giovane protagonista, il notaio napoletano Bernardo Alberini, Commissario dell’isola, appena trentenne, che invano aveva sperato di ricevere dall’ammiraglio Caracciolo aiuti per la difesa. Il suo cadavere, già in decomposizione, viene restituito dal mare a Miliscola. Emergono i “luoghi della memoria”: il castello dei d’Avalos, piazza di Santa Maria delle Grazie, dove è piantato l’albero della libertà, il colorato porto di Marina Grande, siti di raduni, scontri, di risse di marinai ubriachi, ma anche di appuntamenti amorosi. Ed ancora i palazzi storici, come quello Scialoja e le case più modeste del basso popolo. Della repubblica, come della libertà, sempre presente sullo sfondo, sia per essere esaltata che contestata, varia è la percezione: gruppi dirigenti, contadini, marinai, sono capaci di schierarsi, di rischiare, avendo percepito il senso del messaggio politico e sono impegnati a loro volta nel diffonderlo.

In questo contesto si sviluppa un amore che altrimenti non avrebbe avuto ragione di esistere: la storia d’amore tra Bernardo, entusiasta o pessimista, e Aurora, pacata, triste, misteriosa, lapidaria nelle sue dense risposte, “una figurina esile e gentile”, che indossava “abiti stravaganti e demodé”, donna dai discorsi non banali, votata ad una “missione”, annunciatrice di rinascita e libertà. L’amore si basa su un dialogo che presuppone conoscenze comuni: Eleonora de Fonseca Pimentel, Ettore Carafa conte di Ruvo, l’avvocato Pagano, don Gennaro Serra, l’avvocato Pigliacelli. L’ iniziale colpo di fulmine dà luogo sì ad una passione, ma passione da patrioti, che rende calda la notte del loro innamoramento e si intreccia, nei successivi, spesso casuali incontri, strettamente con la politica e poi con la morte.

Storia collettiva e individuale, esperienza politica e sentimentale si condizionano reciprocamente, in un racconto che compensa la mancanza di una idonea documentazione: notizie frammentarie si hanno infatti sul protagonista principale, attraverso Lomonaco, Dumas, D’Ayala, ma l’Autrice, già nota per i suoi lavori di ricerca storica, in questo contesto è legittimata ad inventare, a fare propri tutti i personaggi, adattandoli al proprio sentire, alla propria immaginazione. Le fonti, interrogate in maniera trasversale, ci danno un’atmosfera, fatta di razionalità e sentimento. Un diverso 1799, dunque, già pienamente romantico, quello che ci restituisce Antonella Orefice con il suo racconto, il cui intento principale è la trasmissione di un sistema di valori, in una dimensione insulare non marginale, essa stessa protagonista.

Giovanni Di Cecca

Direttore del Monitore Napoletano rifondato nel 2010

giovedì 2 giugno 2011

Quella inconscia voglia di soffrire - di Nazzario Giambartolomei



Parlare della sofferenza non è cosa semplice. Intanto è insito il rischio di non parlarne adeguatamente e in secondo luogo vi è una certa difficoltà nel non toccare troppo nell’intimo alcune persone, vittime di lutti o/e separazioni. Scopo di questa mia piccola riflessione è di analizzare alcune dinamiche sociali che non posso fare a meno di notare e di vivere. Mi concentrerò quindi sui vivi e non sui morti. Come diceva Carl G. Jung :

“I morti non sono da compiangere, hanno tanto in più rispetto a noi. Sono da compiangere i vivi che osservano la fugacità dell'esistere e devono sopportare nel tempo la separazione, il dolore, l'isolamento.”

Sono le esperienze della quotidianità ad interessare il nucleo della sofferenza. Esperienze quotidiane che per la loro potenza emotigena assumono nella nostra vita psichica il carattere di straordinarietà. I lutti, le separazioni amorose, le malattie, ecco il nome di questi “spiriti diabolici” che ci assillano nei nostri sogni. Non è un caso che ho parlato di “spiriti diabolici”. Infatti, fino a quando l’era positivista non pose la tecnica e la scienza al servizio della sofferenza, le malattie, anche psichiche, erano sotto il dominio di una visione religiosa che le relegava alla presenza del “maligno” nel corpo del malato. È storicamente risaputo che i lebbrosi, i sifilitici e gli appestati venivano “curati” a suon di frustate nei lebbrosari della chiesa cattolica. Chi poi riusciva a salvarsi da tali tentativi di estirpare il maligno, era costretto ad indossare delle tuniche standard e un campanello al collo - simile a quello per le mucche da pascolo - per farsi riconoscere dagli altri, i quale potevano quindi allontanarsi ed evitare il contagio. Agli ammalati erano distribuiti dei volumi sull’arte di morire. Uno dei più noti era l’“ars moriendi” che vide un grande successo nell’epoca medioevale. Molti di questi atti curativi si rivelarono inutili, in quanto alcune delle più note malattie non si diffondevano da individuo ad individuo, ma a causa delle fonti di acqua che contenevano batteri. Se oggi le grandi epidemie non mietono più così tanto terrore nelle nostre coscienze, è proprio grazie a quell’era scientifica che, grazie alla speranza e alla credenza nella scienza è riuscita a capire molti dei fenomeni alla base delle malattie e a trovare un metodo di cura o prevenzione delle stesse. Da un altro punto di vista però, la tecnica ha anche creato nuove fonti di paura e pericolo. Pensiamo per esempio allo sviluppo dell’ingegneria meccanica e ai mezzi di trasporto. Fino agli inizi del 1900 non esisteva il pericolo di morire o di ferirsi in un incidente stradale; sicuramente ne esistevano altri ma nello specifico, il trauma dovuto ad un lutto per aver perso un proprio caro in un incidente stradale, non poteva sussistere. Dopo questo brevissimo percorso storico possiamo affrontare – benché marginalmente – alcuni aspetti della nostra società. Se osserviamo con un poco di distacco gli avvenimenti luttuosi di oggi, possiamo vedere molto di più di quello che potremmo osservare tramite una lente di ingrandimento. La difficoltà è insita nel contatto empatico. Molte persone non riescono a fare quel piccolo salto indietro grazie al quale potrebbero accorgersi della loro inadeguata padronanza affettiva. Ciò può essere notato anche dall’effetto che ha la cronaca nera ai giorni d’oggi. Un effetto distraente che impone un approccio empatico irrazionale, tale da concentrare l’intera sensibilità dello spettatore nelle notizie di un caso di cronaca senza poi lasciare un minimo di empatia per chi vive vicino a noi. Questa è empatia a senso unico e non è un modo sano di vivere la propria affettività. Si rivelano in questo modo delle tendenze masochistiche che giacciono nel voler immedesimarsi con i genitori delle vittime, o con le vittime stesse. Come risultato abbiamo un completo disinteresse per le vicende che riguardano la collettività e l’interesse comune, come una crisi economica o una lesione dei diritti fondamentali del cittadino. Una società come la nostra, che scandisce in modo così statico le categorie di felicità e sofferenza, di bello e di brutto, ha portato ad una espulsione di certe tematiche della nostra vita quotidiana. La televisione non mostra quasi mai la malattia o la bruttezza estetica, e se lo fa, lo fa con distacco molto forte dagli aspetti più gradevoli. Tale cesura tra bello e brutto, tra sofferenza e felicità provoca una mancata integrazione di tali aspetti all’interno della psiche dell’uomo. Una mancata integrazione dei nostri vissuti esperienziali, genera delle dinamiche affettive e comportamentali che minano l’intera comunità. Di fronte ai traumi come la morte di un famigliare, un individuo che non ha integrato l’immagine della sofferenza e della felicità, si trova senza difese e rischia la caduta in uno stato depressivo o peggio ancora, può ricorrere a tentativi di suicidio. A questo punto dobbiamo specificare che per integrazione delle esperienze affettive, non si intende l’elevazione della sofferenza a paradigma assoluto – come invece intendono le gerarchie ecclesiastiche – non significa creare un libro sull’arte di soffrire, ma significa evitare quella cesura, quel proiettare altrove, all’infuori dei nostri schemi la possibilità della sofferenza. Per fare un esempio di quello che indico come il tentativo erroneo di creare un libro dell’arte di soffrire, posso prendere uno di quei libri che oggi va per la maggiore tra i giovani. Si tratta di volumi carichi di storie d’amore che però parlano solo di sofferenza e non pongono il lettore in una dimensione unitaria della vita affettiva. Questi autori, che oggi vendono tantissime copie dei loro lunghissimi e dannosissimi volumi, parlano di quell’amore nel quale uno dei due è completamente perso dell’altro, così tanto da dover mettere a rischio la sua vita. Si legge continuamente la frase “Io senza di te non ce la posso fare!”... che dimostra quanto poco si è affettivamente maturi. Atteggiamenti del genere portano ad una idealizzazione dell’altro tale da perdere il senso del proprio sé. Sono libri che servono molto bene quei governi che oramai, neanche poi così tanto loscamente, cercano di rubare denaro al popolo. Le stesse dinamiche affettive riscontrate nell’amore possono essere analizzate sotto l’aspetto della sofferenza da lutto. Per troppo tempo la società (che siamo noi) ci ha insegnato a dover soffrire e a dover piangere per la perdita di una persona cara. Si badi bene, non sto dicendo che la nostra sofferenza per il lutto è assimilabile in toto a quello delle “piagnone” che un tempo andavano a piangere a pagamento nei cimiteri. Quello che intendo dire è che in noi è presente una dinamica simile ma non cosciente, che determina gran parte dei nostri atteggiamenti quando siamo colpiti da un lutto. I nostri pensieri non sono frutto di una integrazione tra felicità e morte, e non mostrano una continuità tra i due aspetti della personalità. Si determina quindi il prevalere dello stato d’animo sofferente senza alcun elemento di bilanciamento che permetterebbe uno slancio vitale, verso un tentativo di risalire il pozzo della sofferenza. La causa di tutto ciò non può essere fatta risalire unicamente ai mezzi di informazione ma giace nella storia della nostra struttura sociale che gioca ancora sulla falsariga della dipendenza. Il grave nucleo patogeno della nostra società risiede nella dipendenza da oggetti e da persone e ciò è causato dalla nostra incapacità di riempire la nostra vita con le nostre riflessioni. Siamo uomini incapaci di ascoltarci, di ascoltare e di stare soli con noi stessi. Siamo disposti a tutto pur di non incontrare i nostri pensieri più profondi. Come accennato tra parentesi, la responsabilità di una maggiore integrazione dell’affettività è nelle nostre mani. Si tratta quindi di non favorire una dipendenza infantile, ma di rafforzare l’integrazione psichica degli affetti e l’individuazione del proprio sé nell’universo. Georges Devereux, il fondatore dell’etnopsichiatria scriveva:

“ Insegniamo tanto efficacemente ai nostri bambini ad adottare un comportamento puerile che fanno molta fatica più tardi a diventare adulti."


Nazzario Giambartolomei


mercoledì 1 giugno 2011