Giuramento della Pallacorda

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giovedì 2 giugno 2011

Quella inconscia voglia di soffrire - di Nazzario Giambartolomei



Parlare della sofferenza non è cosa semplice. Intanto è insito il rischio di non parlarne adeguatamente e in secondo luogo vi è una certa difficoltà nel non toccare troppo nell’intimo alcune persone, vittime di lutti o/e separazioni. Scopo di questa mia piccola riflessione è di analizzare alcune dinamiche sociali che non posso fare a meno di notare e di vivere. Mi concentrerò quindi sui vivi e non sui morti. Come diceva Carl G. Jung :

“I morti non sono da compiangere, hanno tanto in più rispetto a noi. Sono da compiangere i vivi che osservano la fugacità dell'esistere e devono sopportare nel tempo la separazione, il dolore, l'isolamento.”

Sono le esperienze della quotidianità ad interessare il nucleo della sofferenza. Esperienze quotidiane che per la loro potenza emotigena assumono nella nostra vita psichica il carattere di straordinarietà. I lutti, le separazioni amorose, le malattie, ecco il nome di questi “spiriti diabolici” che ci assillano nei nostri sogni. Non è un caso che ho parlato di “spiriti diabolici”. Infatti, fino a quando l’era positivista non pose la tecnica e la scienza al servizio della sofferenza, le malattie, anche psichiche, erano sotto il dominio di una visione religiosa che le relegava alla presenza del “maligno” nel corpo del malato. È storicamente risaputo che i lebbrosi, i sifilitici e gli appestati venivano “curati” a suon di frustate nei lebbrosari della chiesa cattolica. Chi poi riusciva a salvarsi da tali tentativi di estirpare il maligno, era costretto ad indossare delle tuniche standard e un campanello al collo - simile a quello per le mucche da pascolo - per farsi riconoscere dagli altri, i quale potevano quindi allontanarsi ed evitare il contagio. Agli ammalati erano distribuiti dei volumi sull’arte di morire. Uno dei più noti era l’“ars moriendi” che vide un grande successo nell’epoca medioevale. Molti di questi atti curativi si rivelarono inutili, in quanto alcune delle più note malattie non si diffondevano da individuo ad individuo, ma a causa delle fonti di acqua che contenevano batteri. Se oggi le grandi epidemie non mietono più così tanto terrore nelle nostre coscienze, è proprio grazie a quell’era scientifica che, grazie alla speranza e alla credenza nella scienza è riuscita a capire molti dei fenomeni alla base delle malattie e a trovare un metodo di cura o prevenzione delle stesse. Da un altro punto di vista però, la tecnica ha anche creato nuove fonti di paura e pericolo. Pensiamo per esempio allo sviluppo dell’ingegneria meccanica e ai mezzi di trasporto. Fino agli inizi del 1900 non esisteva il pericolo di morire o di ferirsi in un incidente stradale; sicuramente ne esistevano altri ma nello specifico, il trauma dovuto ad un lutto per aver perso un proprio caro in un incidente stradale, non poteva sussistere. Dopo questo brevissimo percorso storico possiamo affrontare – benché marginalmente – alcuni aspetti della nostra società. Se osserviamo con un poco di distacco gli avvenimenti luttuosi di oggi, possiamo vedere molto di più di quello che potremmo osservare tramite una lente di ingrandimento. La difficoltà è insita nel contatto empatico. Molte persone non riescono a fare quel piccolo salto indietro grazie al quale potrebbero accorgersi della loro inadeguata padronanza affettiva. Ciò può essere notato anche dall’effetto che ha la cronaca nera ai giorni d’oggi. Un effetto distraente che impone un approccio empatico irrazionale, tale da concentrare l’intera sensibilità dello spettatore nelle notizie di un caso di cronaca senza poi lasciare un minimo di empatia per chi vive vicino a noi. Questa è empatia a senso unico e non è un modo sano di vivere la propria affettività. Si rivelano in questo modo delle tendenze masochistiche che giacciono nel voler immedesimarsi con i genitori delle vittime, o con le vittime stesse. Come risultato abbiamo un completo disinteresse per le vicende che riguardano la collettività e l’interesse comune, come una crisi economica o una lesione dei diritti fondamentali del cittadino. Una società come la nostra, che scandisce in modo così statico le categorie di felicità e sofferenza, di bello e di brutto, ha portato ad una espulsione di certe tematiche della nostra vita quotidiana. La televisione non mostra quasi mai la malattia o la bruttezza estetica, e se lo fa, lo fa con distacco molto forte dagli aspetti più gradevoli. Tale cesura tra bello e brutto, tra sofferenza e felicità provoca una mancata integrazione di tali aspetti all’interno della psiche dell’uomo. Una mancata integrazione dei nostri vissuti esperienziali, genera delle dinamiche affettive e comportamentali che minano l’intera comunità. Di fronte ai traumi come la morte di un famigliare, un individuo che non ha integrato l’immagine della sofferenza e della felicità, si trova senza difese e rischia la caduta in uno stato depressivo o peggio ancora, può ricorrere a tentativi di suicidio. A questo punto dobbiamo specificare che per integrazione delle esperienze affettive, non si intende l’elevazione della sofferenza a paradigma assoluto – come invece intendono le gerarchie ecclesiastiche – non significa creare un libro sull’arte di soffrire, ma significa evitare quella cesura, quel proiettare altrove, all’infuori dei nostri schemi la possibilità della sofferenza. Per fare un esempio di quello che indico come il tentativo erroneo di creare un libro dell’arte di soffrire, posso prendere uno di quei libri che oggi va per la maggiore tra i giovani. Si tratta di volumi carichi di storie d’amore che però parlano solo di sofferenza e non pongono il lettore in una dimensione unitaria della vita affettiva. Questi autori, che oggi vendono tantissime copie dei loro lunghissimi e dannosissimi volumi, parlano di quell’amore nel quale uno dei due è completamente perso dell’altro, così tanto da dover mettere a rischio la sua vita. Si legge continuamente la frase “Io senza di te non ce la posso fare!”... che dimostra quanto poco si è affettivamente maturi. Atteggiamenti del genere portano ad una idealizzazione dell’altro tale da perdere il senso del proprio sé. Sono libri che servono molto bene quei governi che oramai, neanche poi così tanto loscamente, cercano di rubare denaro al popolo. Le stesse dinamiche affettive riscontrate nell’amore possono essere analizzate sotto l’aspetto della sofferenza da lutto. Per troppo tempo la società (che siamo noi) ci ha insegnato a dover soffrire e a dover piangere per la perdita di una persona cara. Si badi bene, non sto dicendo che la nostra sofferenza per il lutto è assimilabile in toto a quello delle “piagnone” che un tempo andavano a piangere a pagamento nei cimiteri. Quello che intendo dire è che in noi è presente una dinamica simile ma non cosciente, che determina gran parte dei nostri atteggiamenti quando siamo colpiti da un lutto. I nostri pensieri non sono frutto di una integrazione tra felicità e morte, e non mostrano una continuità tra i due aspetti della personalità. Si determina quindi il prevalere dello stato d’animo sofferente senza alcun elemento di bilanciamento che permetterebbe uno slancio vitale, verso un tentativo di risalire il pozzo della sofferenza. La causa di tutto ciò non può essere fatta risalire unicamente ai mezzi di informazione ma giace nella storia della nostra struttura sociale che gioca ancora sulla falsariga della dipendenza. Il grave nucleo patogeno della nostra società risiede nella dipendenza da oggetti e da persone e ciò è causato dalla nostra incapacità di riempire la nostra vita con le nostre riflessioni. Siamo uomini incapaci di ascoltarci, di ascoltare e di stare soli con noi stessi. Siamo disposti a tutto pur di non incontrare i nostri pensieri più profondi. Come accennato tra parentesi, la responsabilità di una maggiore integrazione dell’affettività è nelle nostre mani. Si tratta quindi di non favorire una dipendenza infantile, ma di rafforzare l’integrazione psichica degli affetti e l’individuazione del proprio sé nell’universo. Georges Devereux, il fondatore dell’etnopsichiatria scriveva:

“ Insegniamo tanto efficacemente ai nostri bambini ad adottare un comportamento puerile che fanno molta fatica più tardi a diventare adulti."


Nazzario Giambartolomei


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