Giuramento della Pallacorda

Giuramento della Pallacorda

giovedì 24 febbraio 2011

Eleonora de Fonseca Pimentel: Il mistero della tomba scomparsa

Tratto da “La Penna e La Spada” di Antonella Orefice - Istituto Italiano per gli Studi Filosofici - Arte Tipografica Editrice, Napoli 2009

Il 20 agosto 1799 finiva la vita della marchesa Eleonora de Fonseca Pimentel , ma immortale resterà inciso il suo nome nel Pantheon dei martiri della libertà.

Eleonora di sé non lasciò soltanto gli scritti ed il ricordo glorioso e sofferto della sua breve esistenza. Fu la morte stessa ad avvolgerla nel suo più grande mistero: il luogo della sepoltura.

Secondo i registri dei Bianchi della Giustizia il cadavere fu seppellito nella chiesa di S. Maria di Costantinopoli, una piccola congrega funeraria, demolita poi nel primo Ottocento. Nonostante la fioritura dei testi, nessun ricercatore ha tentato di andar oltre il luogo comune secondo il quale, scomparendo il sito che aveva ospitato la salma, fosse scomparsa anche questa. Qualsiasi biografia finisce in Piazza Mercato con l’esecuzione del 20 agosto del 1799 e tutte alla fine stendono un velo sulla questione della sepoltura.

In diversi testi di toponomastica storica esistono elencati ben cinque riferimenti a chiese intitolate a S. Maria di Costantinopoli site nel quartiere Mercato alla fine del 1700.

Chiesa di S. Maria di Costantinopoli ai Barrettari, dei funari e campanari

Chiesa di S. Maria di Costantinopoli alla strada dei foretani

Confraternita di S. Maria di Costantinopoli in Santa Caterina in Foro Magno

Cappella di S. Maria di Costantinopoli dei fusi e cocchiari

Chiesa di S. Maria di Costantinopoli a Santo Eligio (fratelli cappellisti)

La molteplicità dei siti è stato, senza dubbio, uno dei motivi che hanno scoraggiato gli studiosi. Eppure, se prima di intraprendere una così ardua indagine si fosse concentrata un po’ più l’attenzione alla testimonianza dei Bianchi, si sarebbe scoperto che essa conteneva la chiave per una indagine più mirata. Come scriveva Luigi Conforti: “I documenti non basta raccoglierli, bisogna esaminarli”.

Di seguito sono integralmente riportati i passi relativi all’esecuzione del 20 agosto 1799; le omissioni riguardano note d’ufficio tra i confratelli celebranti il triste rito.

Immediatamente eseguita la giustizia si dia sepoltura ai cadaveri dei nominati Colonna e Serra, lasciando sospesi sul patibolo gli altri , cioè Vescovo Natale, Lupo, Piatti e Fonseca Pimentel che poi nel giorno seguente dovranno essere sepolti.

Si uscì dal Castello alle ore 18 e mezza passate e giunti al largo del Mercato per l’esecuzione, si incamminò al patibolo Don Giuliano Colonna e gli altri sette pazienti furono condotti nel guardione da Birri del Mercato dove venivano assistiti dai nostri fratelli nel mentre si eseguiva la giustizia del Colonna e così si praticò agli altri fino all’ultima che fu la Fonseca Pimentel, i quali disgraziati riferirono dai rispettivi criminali tutti bendati, e così furono decollati i primi due e affocati gli altri. Tutti e otto morirono con non equivoci segni di vero e noto pentimento delle loro passate colpe, e speriamo che diano al pregante negli altresì riposi a godere quella gloria che per darcela in confessione si faticò con tanto impegno a premura, augurando la sorte che vogliano implorare dal cielo alla nostra Compagnia tutta quella copia di luci e grazia che sono necessaria per una tanta opera di pietà e contemporaneamente preppiù la medesima nello zelo a favore di essi sempre rifugge.

Lo stato di Eleonora Pimentel Fonseca è il seguente. Ella ha due fratelli, il primo si chiama Don Michele il quale ha moglie che abita in Chieti ed ha due figli ed è incinta. L’altro si chiama Don Giuseppe, ha moglie chiamata Donna Patronilla , che abita alla strada dei Greci numero 26 ed ha un ragazzo ed una ragazzina di tenera età tutti e due.

I cadaveri di Domenico Piatti e Lupo furono sepolti nella chiesa di Santa Maria di Costantinopoli. Gli altri due di Antonio Piatti e Pimentel si dovevano seppellire nella chiesa di S. Caterina al Mercato, ma essendo venuta una considerevole pioggia, si mandarono a prendere dalla forca ove erano sospesi dai becchini, e furono sepolti nella stessa chiesa di Santa Maria ove furono sepolti vestiti interamente come furono spiccati.

Ad un’attenta lettura queste scarne annotazioni hanno fornito dei particolari di fondamentale importanza. Innanzitutto, è stato possibile stabilire che Eleonora nel 1799 avesse in vita solo due fratelli, Michele e Giuseppe; di quest’ultimo, sempre dai Registri della Congregazione dei Bianchi, si sono accertati l’arresto e la condanna a morte prevista per il 26 ottobre dello stesso anno, e fortunatamente non eseguita Per quel che concerne Michele, maggiore dell’esercito, egli morì ottantenne, lasciando in vita solo una ragazza nubile di nome Eleonora, come la celebre zia.

Ad Eleonora non fu concesso il privilegio (riservato solo ai nobili) della decapitazione, nonostante fosse marchesa. Arrivò bendata al patibolo con quella stessa fermezza di spirito con cui aveva affrontato la vita. Secondo le disposizioni date, il suo corpo sarebbe dovuto rimanere un solo giorno sulla forca, tuttavia, la Cronaca dei Bianchi e quella di Diomede Marinelli concordano nel riportare che, subito dopo le esecuzioni, sopravvenne un forte temporale estivo interpretato dalla folla superstiziosa come un castigo divino: la pioggia torrenziale si mescolò al sangue dei martiri e inondò tutta la piazza. I cadaveri di Eleonora e degli altri patrioti giustiziati in quel giorno (i Piatti, padre e figlio, e Vincenzo Lupo) furono frettolosamente rimossi e sepolti nella chiesa di S. Maria di Costantinopoli, prossima al patibolo, anziché essere portati fino a quella di S. Caterina al Mercato, un po’ più distante. La scelta della chiesa avvenne, dunque, solo per ragioni pratiche e non altro.

Da una pianta topografica del tempo, l’unica chiesa che rechi una tale intitolazione e sia prossima alla piazza del Mercato era quella di S. Maria di Costantinopoli nel complesso religioso di Sant’Eligio Della chiesa di S. Maria di Costantinopoli ubicata nel Fondaco della Corona, al vico Campane a Santo Eligio, presso l’Archivio Storico Diocesano di Napoli, esiste ancora qualche documento dal quale é stato possibile stabilire come nel 1836 essa fosse definita angusta ed esaurita, per poi sparire del tutto dalle mappe topografiche di metà Ottocento. D’altra parte, proprio nel 1836, il complesso religioso di S. Eligio risultava aver subito mutamenti per l’abbattimento di alcuni edifici ad esso appartenenti. La notizia è riportata anche nel testo di Carlo Celano Notizie del bello e del curioso della città di Napoli, ripubblicato con degli aggiornamenti nel 1859 a cura di Gian Battista Chiarini: Nel 1836 il pio luogo fu di nuovo restaurato, a cura dell’arch. Orazio Angelini.

Il risanamento edilizio operato nel quartiere Mercato a partire dal 1886 finì col trasformare l’intera zona, inghiottendo vicoli e fondachi nella costruzione dell’attuale Corso Umberto I. Successivamente, i bombardamenti della seconda guerra mondiale hanno determinato la definitiva modificazione urbanistica dell’area.

Ciononostante, proprio sul lato sinistro della chiesa di S. Eligio, quello che dà su piazza Mercato, è stata posta una colonna di marmo che fa da supporto ad un’edicola. con un crocifisso; essa ricorda il punto preciso dove sono avvenute centinaia e centinaia di esecuzioni

Ma come può una chiesa sparire senza lasciare traccia? Dove sono finiti i resti di Eleonora e di tutti coloro che in quel luogo erano stati seppelliti?

Tra le ipotesi c’è quella della traslazione dei defunti dalle chiese soppresse al nuovo cimitero di Poggioreale; tuttavia, nel Registro Generale delle Congreghe del 1840, custodito presso l’Archivio Storico del cimitero di Poggioreale di Napoli, non vi è traccia di una congrega intitolata a S. Maria di Costantinopoli.

Le prime congreghe sorte nel cimitero di Poggioreale intorno al 1836 (lo stesso anno in cui sono avvenuti i restauri dell’architetto Orazio Angelini nel complesso religioso di S. Eligio) erano state ubicate tutte all’interno del chiostro monumentale e riportavano lo stesso di nome del quartiere da cui erano state trasferite in seguito alle nuove disposizioni relative alle Terre Sante emanate durante il decennio francese (1806-1815) e poi riprese da Ferdinando II nel 1836.

Il chiostro rappresenta un raro esempio di architettura claustrale, realizzata secondo il gusto neoclassico e ed è circondato da numerose cappelle gentilizie collocate sotto un portico che disegna un rettangolo dalle ampie dimensioni. Cento colonne di travertino in stile dorico conferiscono al sito un aspetto molto suggestivo. Realizzato in epoca successiva al decennio francese e completato da Ferdinando II nel 1836, esso ospitava le salme di nobili e di membri delle confraternite e delle congreghe religiose. Al centro del chiostro, imponente e misteriosa, campeggia una statua marmorea, che assumerà un ruolo fondamentale ai fini di questa ricerca: La Religione dello scultore napoletano Tito Angelini.

La statua rappresenta una Madonna posta su di un piedistallo con un’aureola a raggiera; sul lato destro essa regge una croce mentre nella mano sinistra leva la palma della Gloria. Ci sono quattro angeli inginocchiati ai suoi piedi, tutti con lo sguardo rivolto verso il basso: il primo sulla destra ha le braccia incrociate sul petto ed un fiore tra le mani, quello alle sue spalle ha una mano sul cuore e nell’altra tiene una ghirlanda; sulla sinistra è inginocchiato un terzo angelo dall’espressione assorta in preghiera mentre alle spalle siede l’unico messaggero, privo di ali. Pare che queste siano andate distrutte in seguito al disinnesco di una bomba che, però, non provocò ulteriori danni, né al chiostro, tanto meno alla statua. Con il braccio destro il quarto angelo regge uno scudo crociato, mentre nella mano sinistra tiene una spada, alla cui estremità dell’impugnatura vi è la testa alata di un putto. Dei quattro lati del piedistallo centrale dove è posta la Madonna, su due di essi sono incisi degli epitaffi: Ferdinando II Borbonio regnante, senatus populus que neapolitanus, quo jura Piorum Manium sanatoria in Christi tutela forent. Sepolcretum A.D. MDCCCXXXVI ed Ecce Ego Iesuchristi religio, apeniam in sono tubae sepulcra vestra, ut dormientes in polvere, excientur in vitam aeternam, palmam gloriae, sub crucis signo recepturi. Sul lato anteriore si trova il bassorilievo di un angelo che spicca il volo, mentre sul posteriore lo stemma dei Borbone.

Le cappelle riservate che si affacciano sul chiostro monumentale sono quasi tutte intitolate alle congreghe di quartiere curate dai religiosi appartenenti all’ordine dei Bianchi della Giustizia, o alle tante famiglie blasonate del tempo, come i Caracciolo, i Ruffo, i Pignatelli.

Ubicata al N. 22, esiste anche quella dei Pimentel Fonseca, intitolata a CLEMENTE FONSECA anno 1849.

Attraverso la massiccia porta, sovrastata da una grata nella parte superiore, a malapena si riesce a leggere una lapide: Clemente Fonseca, Generale del Genio, nato il 3 agosto 1797 e morto il 6 novembre 1865, nipote di Eleonora, figlio di Giuseppe.

Gli Atti ottocenteschi relativi alla cappella sono custoditi presso l’Archivio del cimitero di Poggioreale e sono collocati nel fascicolo 39, incartamento 14. Il titolo di marchese risulta più volte nei documenti relativi alle traslazioni di cadaveri avvenute nel primo Ottocento (1843 e il 1848) dalla congrega di S. Maria delle Grazie a Toledo alla cappella di famiglia. Si tratta dei resti di Ferdinando e Giulio Fonseca, rispettivamente zio e cugino di Eleonora, coloro che si erano trasferiti da Roma, assieme alla sua famiglia, a Napoli e con i quali aveva convissuto durante gli anni dell’adolescenza. È probabile che la data di erezione della cappella non sia corretta, dal momento che quei cadaveri risultano già essere stati traslati anteriormente al 1849. La traslazione dei resti di parenti contemporanei e diretti potrebbe far supporre che la stessa Eleonora abbia trovato lì sepoltura; considerata, però, la feroce censura borbonica di quegli anni, il passaggio deve essere avvenuto in gran segreto, senza che se ne facesse menzione scritta. Tra i documenti della cappella gentilizia ritornano a più riprese i nomi di famiglia, tuttavia, per quanto attiene a tutta la documentazione ottocentesca, traspare il timore politico dovuto certo alla vicenda della celebre antenata, bandita anche nella memoria. Solo dopo il 1860, con l’unificazione dell’Italia e gli studi commemorativi del primo centenario, i parenti dovettero sentirsi più liberi dal timore persecutorio abbattutosi su di essi in epoca borbonica. Questo è provato da un documento del 1920, in cui è possibile trovare l’unico riferimento al cognome intero con titolo nobiliare annesso, Marchese de Fonseca Pimentel (evidenziato in rosso). La cronologia non lascia pensare ad un controllo politico, quanto alla mano di uno storico, con molta probabilità quella di Benedetto Croce. Questa, che per adesso è data come una supposizione, troverà forse in seguito un suo fondamento.

L’interno della cappella Fonseca, tuttora adibita ad accogliere i defunti di famiglia, è quello tipico delle cappelle gentilizie ottocentesche. Nel tetro ipogeo, a cui si accede scendendo per una minuscola scala posta dietro l’altare, esistono numerose cellette, piccoli siti creati per i resti dei bambini o di coloro dei quali erano rimasti solo mucchietti di ossa. Alcune risultano vuote, altre chiuse da lapidi illeggibili. Tra le nicchie più antiche poste sui quattro lati dell’ipogeo, proprio di fronte a quella di Ferdinando e Giulio Fonseca, ne esiste una diversa dalle altre sulla cui lapide è stato posto il bassorilievo di un uomo. Si tratta della tomba di Antonio Fonseca, nato il 4 luglio 1859 e morto il 23 marzo 1897 e di sua moglie Eleonora, della quale però non esistono date di riferimento né sulla lapide, né agli atti archiviati. Chi è questa misteriosa Eleonora ricordata su una tomba di cent’anni dopo? E’ stato forse posto quel bassorilievo a custodire un secolare segreto di famiglia?

Uscendo nel chiostro, ecco stagliarsi imponente la statua di Tito Angelini. Tutti e quattro gli angeli guardano verso il basso, intenti a pregare sul primo grande ipogeo comunale situato proprio nell’area verde del quadrato monumentale. Ma è la posizione assunta della palma della Gloria tra le mani della Madonna che sembra voler indicare un punto preciso alla destra del chiostro, e non solo. L’angelo scolpito in bassorilievo sul lato anteriore del piedistallo spicca il volo verso destra, ed anche il messaggero con le braccia incrociate sul petto, ha tra le mani un fiore che punta a destra e con esso una parte dell’indice. Il punto indicato è proprio quello dove è situata la cappella gentilizia di Clemente Fonseca.

Negli artisti del XVIII e XIX secolo è facile rinvenire un certo gusto per l’esoterico, il mistero, la storia e le leggende. Anche la statua di Angelini sembra custodire in sé un suo segreto.

Frequentando la corte, Eleonora doveva aver conosciuto parecchi nobili e cortigiani, tra cui forse lo stesso Costanzo Angelini (1760-1853), pittore e ritrattista della corte borbonica e padre di Tito (1806-1878), autore della statua La Religione, realizzata nel 1845.

Tito deve aver ereditato dal padre e dal suo tempo un’impronta storica notevole per quel che concerne la rivoluzione del ’99. Aveva trascorso la sua prima giovinezza durante il decennio francese, poi tornarono i Borbone e le loro oppressioni. L’artista, come tanti, visse quei momenti con grande inquietudine, scolpendo nel proprio cuore il sacrificio dei martiri della libertà. In quegli anni anche le opere d’arte erano bandite e censurate per il preciso intento dei Borbone di cancellare dalla memoria dei posteri i sei mesi della Repubblica del 1799 ed i patrioti che per lei avevano sacrificato la vita. I ritratti, come i documenti andarono dispersi, altri furono tenuti nascosti dalle famiglie dei patrioti uccisi, dai loro amici e dai collezionisti, ed alcuni vennero alla luce solo con l’unificazione dell’Italia e le celebrazioni del primo centenario promosse da Spinazzola, allora sovrintendente del museo di San Martino, e dagli storici Croce, d’Ayala, di Giacomo e Ceci.

Il cimitero di Poggioreale fu reso funzionale a partire dal 1836, ma Tito Angelini lavorò alla statua de La Religione fino al 1845, proprio nel periodo durante il quale erano avvenute le traslazioni delle salme di Cesare e Ferdinando Fonseca e in incognito, anche quella di Eleonora. Probabilmente fu informato della traslazione da S. Maria di Costantinopoli dal parente architetto Orazio Angelini, che aveva eseguito i lavori di restauro del complesso religioso di S. Eligio nel 1836.

Fu allora che, pur se messo a tacere dalla censura borbonica, Tito Angelini pensò di suggellarne il segreto nella sua opera, dando un preciso indirizzo della cappella di famiglia attraverso quei particolari che indicano tutti la destra del chiostro. Gli angeli guardano verso il prato, l’ossario, dove riposano i resti mortali probabilmente anche degli altri martiri del 1799. Un messaggio forse troppo chiaro ed anche molto suggestivo. Lo scultore avrebbe voluto ricordare Eleonora e gli altri martiri liberamente, ma durante gli anni della restaurazione fu costretto ad usare un linguaggio simbolico. Solo dopo l’Unità d’Italia poté esprimersi senza censure, divenendo il più rigoroso interprete di quel sacrificio rivoluzionario, tanto che la strada antistante Castel Sant’Elmo, il sacrario dei martiri della libertà, porta il suo nome. I quattro bassorilievi, da lui realizzati negli anni successivi al 1860, raffiguranti gli ultimi momenti di vita dei protagonisti della Rivoluzione del 1799, rappresentano la più grande opera scultorea di carattere celebrativo-risorgimentale di quel periodo e la prova del sentimento che mosse Angelini nel ’45 a celare nella sua opera il segreto della tomba di Eleonora. Essi pervennero al Museo di San Martino agli inizi del Novecento, come dono dei Lambiase Sanseverino di Sandonato, e sono attualmente esposti nella Sala 51 dello stesso Museo, la famosa Sala del ’99.

Nei quattro bassorilievi: Esecuzione di Domenico Cirillo, Mario Pagano, Ignazio Ciaja, Giorgio Pigliacelli; Suicidio del capitano Velasco; Esecuzione di Ettore Carafa; Esecuzione di Eleonora Fonseca Pimentel e Gennaro Serra di Cassano, eseguiti in gesso patinato color terracotta, con una resa bozzettistica, l'autore coglie il momento eroico in cui i fieri rivoluzionari affrontano il patibolo o vanno incontro volontariamente alla morte; in una contingenza storica costituita da forti passioni politiche, venne fissato l'attimo più significativo, carico di valore morale, che riveste così un pregno carattere esemplare.

Come Angelini volle suggellare il momento della morte ed il segreto della tomba di Eleonora nelle sue opere, così il suo giovane e prediletto discepolo Giuseppe Boschetto (Napoli 1841-1918) ne immortalò il passaggio dalla prima sepoltura in un famoso dipinto del 1868, La Pimentel condotta la patibolo. Vestita di nero, con un crocifisso tra le mani, Eleonora viene ritratta con volto mesto, rassegnato, scortata dalle guardie, dai fratelli della Congregazione dei Bianchi e da un corteo di lazzari, mentre si avvia al patibolo percorrendo proprio la strada antistante la chiesa di S. Eligio. Pur ritraendo di questa solo una parte del portale, alla pari di quella del maestro, è chiaro l’intento simbolico. Eleonora fu seppellita nel complesso religioso di S. Eligio e all’incirca quarant’anni dopo i suoi resti furono traslati nella cappella gentilizia situata nuovo cimitero di Poggioreale. Da allora nessuno ha mai violato un gran segreto di famiglia, nemmeno Croce.Il ciclo dei bassorilievi dell’Angelini era già noto al nostro filosofo, tanto che ne aveva pubblicato uno, e non a caso quello relativo all’esecuzione di Eleonora, sul frontespizio con cui si apriva l’Albo Storico. Questo lascia supporre che Croce fosse anche a conoscenza del mistero suggellato nelle opere dello scultore napoletano e che quella sottolineatura in rosso tra i titoli della cappella gentilizia del 1920, apportata al nome per intero, sia opera sua. Tra l’altro, Croce aveva avuto modo di conoscere anche alcuni discendenti di Eleonora e, pertanto, deve essere stato informato su molti particolari inediti relativi non solo alla vita, ma anche agli anni successivi alla morte. E’ probabile che gli stessi abbiano chiesto al Croce di non svelare il temuto segreto di famiglia e di tenerlo seppellito nella polvere dei secoli. Ciononostante, anch’egli ha lasciato un’arcana traccia. Forse a quel tempo non era giunto ancora il momento di svelarlo.

Fonti archivistiche e Bibliografiche

Archivio Storico Diocesano di Napoli, Registri dei Bianchi della Giustizia, Scrivano Calà, Vol.240.

Archivio Storico Diocesano di Napoli, Registri dei Bianchi della Giustizia, Scrivano Minutolo, Vol.241.

Archivio Storico Diocesano di Napoli, Fondo Arcivescovi, Sez. Filangieri, fascicolo 107 n.28.

Archivio Cimitero di Poggioreale di Napoli , Titoli di Cappelle gentilizie, Fascicolo 39, Incartamento 14.

AA.VV., Memorie storiche della Repubblica Napoletana del 1799.

L.Conforti, Napoli nel 1799, Critica e documenti inediti, Napoli 1889.

C.Celano, Notizie del bello e del curioso della città di Napoli, Con aggiunzioni de’ più notabili miglioramenti posteriori fino al presente, a cura di G.B. Chiarini, 1856, Napoli 1972.

Le carceri del cittadino "libero"

Sentiamo spesso parlare di sovraffollamento delle carceri italiane e dei giornalieri suicidi che avvengono nel loro interno; ma perché il mondo delle carceri giace pressoché fuori dalle mura della nostra coscienza? Perché tentenniamo nel sentirci “toccati” dalla disastrosa situazione delle carceri italiane?

Rousseau scriveva:

C’è d’altronde un altro principio che Hobbes non ha affatto intuito, e che è stato dato all’uomo per attenuare in alcune circostanze la ferocia del suo amor proprio, o l’istinto di conservazione prima che questo amore nascesse: tale principio modera l’ardore per il proprio benessere con una innata ripugnanza a vedere soffrire il proprio simile”.

(Discorso sull'origine e i fondamenti della diseguaglianza tra gli uomini)

Proviamo a fare un esperimento. Se portiamo un nostro amico a visitare una casa circondariale e al termine della visita gli chiediamo di esprimere un giudizio su quello che ha visto, la sua risposta sarà molto probabilmente simile a questa: “Stanno più comodi di me... hanno anche il televisore!” Questo tipo di risposta è considerata dalla psicologia sociale come una sorta di bias mentale. Sembra che il nostro amico abbia voluto vedere la realtà del carcere con l’unico punto di vista che gli avrebbe confermato la sua teoria preconcetta.
La visita all’interno delle carceri smuove le nostre strutture e le nostre credenze profonde a riguardo della visione del giusto e dell’ingiusto, del bene e del male, tanto che si può avvertire un sentimento di solidarietà per i detenuti. Tale sentimento nasce dall'aver riconosciuto un “fratello” all’interno di una situazione che sappiamo tragica, ma per la coscienza di molti questo è uno stato di pericolo, poiché vengono a svanire le differenze tra la rappresentazione di detenuto (chi ha commesso un reato) e quella di cittadino libero. Una delle principali difese messe in atto per evitare lo sbiadire delle differenze è la cosiddetta “credenza del mondo giusto”.
Questa credenza consiste in una ricerca di una logica di equilibrio e di giustizia per cui chi viene punito deve avere in qualche modo sbagliato. Le persone crederebbero che il mondo sia regolato in modo tale da punire chi sbaglia, come se ci fosse una giustizia universale. (Pajardi, 2008)
Un altro bias mentale che sembra svolgere una funzione di distacco difensivo nei confronti della situazione carceraria è il cosiddetto “errore fondamentale di attribuzione”. Tale errore consiste nella tendenza ad attribuire le cause di un comportamento a fattori disposizionali (personalità) sottostimando l’impatto dei fattori situazionali (ambiente-contesto).
Questo bias permette all’individuo di trovare una giustificazione al fatto che lui non si trova al posto del detenuto, mentre nel suo passato potrebbero giacere esperienze di guida in stato di ebbrezza o di consumo di cannabis, che per puro caso non lo hanno portato all'arresto.
Se la frase di Rousseau sembra ancora reggere di fronte alla visione esplicita della violenza, essa però non regge quando la sofferenza rimane silenziosa, implicita e pericolosa per la nostra personalità.
Mentre il nostro inconscio sembra quindi ricalcare i sentimenti di pietà e fratellanza con il detenuto, la nostra coscienza sembra non voler vedere nel cannocchiale della verità, sembra non voler ricordare quello che già sa.
Le resistenze che pone la nostra psiche sono alla base del fallimento della funzione della pena detentiva. Le funzioni della pena sono la rieducazione e il reinserimento nella società dell’individuo che ha violato il contratto sociale. Ma come può essere rieducativo un carcere che contiene una quantità di detenuti che supera di tre volte la capienza regolare? Come può essere rieducativo stare in una cella per 22-23 ore e avere un’ora d’aria in un campetto di cemento? Come può reinserirsi nella società un ex-detenuto se poi nessuno accetta la sua richiesta di lavoro? Come può dimostrare di rivoler risaldare il contratto sociale a delle persone che non ripongono alcuna fiducia in lui?
Questi i grandi interrogativi che ci pongono le carceri italiane che non sono solo quelle che tengono rinchiusi i detenuti nelle celle ma anche quelle che rinchiudono i nostri pensieri in delle vere e proprie prigioni di ghiaccio.
Rousseau era solito dire: "L'altro è un altro io diverso da me" e intendeva dire che l'altro va trattato come vorrei essere trattato io.

martedì 22 febbraio 2011

Un giacobino tra Tripoli e Tehran



Io mi accingo a dimostrare, cittadini che il re può essere processato; che l’opinione di Morisson, che gli vuole conservare l’inviolabilità, e quella del comitato, che propone di processarlo come cittadino, sono entrambe errate, e che il re deve essere processato in base a principi che non assomigliano né all’una né all’altra opinione. […] Il comitato si propose unicamente di persuadervi che il re dovrebbe essere processato come un semplice cittadino. Io dico, invece, che il re dovrebbe essere giudicato come un nemico, che noi dobbiamo più combatterlo che giudicarlo, e che, non rientrando egli affatto nel contratto che unisce i francesi, le forme della procedura non stanno nella legge civile ma nella legge del diritto dei popoli. […] Ci si meraviglierà un giorno che nel XVIII secolo si sia meno progrediti che nell’epoca di Cesare: allora il tiranno fu immolato in pieno Senato, senza altre formalità che ventitré colpi di pugnale, e senza altra legge che la libertà di Roma. E oggi si fa con rispetto il processo a un uomo assassino di un popolo, colto in flagrante delitto, con la mano nel sangue, la mano nel delitto!
Gli stessi uomini che stanno per giudicare Luigi hanno una Repubblica  da fondare: ma coloro che attribuiscono qualche importanza alla giusta punizione di un re non fonderanno mai una Repubblica. […] Giudicare significa applicare la legge; una legge è un rapporto di giustizia; e che giustizia ci può mai essere fra l’umanità e i re? […] Ma affrettatevi a processare il re, perché non c’è cittadino che non abbia su di lui il diritto che Bruto aveva su Cesare! […] Luigi ha combattuto il popolo[…] é uno straniero, un barbaro […] voi avete visto i suoi perfidi disegni. il suo esercito; il traditore […] faceva leva segreta di truppe[…] è l’assassino della Bastiglia, di Nancy, di campo di Marte ( fece sparare sulla folla inerme n.d.t.) […] quale nemico ci fece più male di lui? […] non si può regnare innocentemente, ciascun re è un ribelle e un usurpatore […]

Luis-Antonie-Léon de Saint-Just
Discorso alla Convenzione per il processo a Luigi XVI
(13 novembre 1792).

Questo estratto ci riporta a una drammatica disputa nel parlamento rivoluzionario del 1792. Il contendere però riguarda sempre l’universale questione della libertà politica e della legittimità del potere.
Oggi noi, figli ingrati di quei giorni di sangue e coraggio, ce ne stiamo qui affacciati dalla nostra virtuale finestra di un social network, a tifare e sperare di vedere, nei gesti disperati di uomini oppressi, rivivere quella scintilla che è stata l’origine della nostra cultura: la libertà politica.
I giacobini europei agivano aderendo all’idea di virtù che scaturiva da una devozione al Bene comune e all’idea di una reale uguaglianza fra gi uomini.
La tirannia, al contrario, fonda la propria pretesa di governare uno Stato in virtù della logica dell’appartenenza di tutti a un univoco corpo sociale che si incarna in un individuo che dovrebbe rappresentarne lo spirito collettivo. Ogni tentativo di staccare il popolo dalla sua incarnazione, o al contrario di espellere l’incarnato dalla collettività che rappresenta, viene rappresentata come l’insana volontà di staccare una testa da un corpo.
La grande novità del furore giacobino fu quella di giustificare ogni azione in nome di una volontà generale  che, in quanto potere impersonale, non era identificabile al di fuori di un ideale puro riconducibile comunque all’idea di bene comune.
Il bene comune non è praticabile da un popolo che per troppo tempo non partecipa a nessun titolo alla vita politica del paese; cittadini abituati solo ad ubbidire e che vivono solo del proprio privato si rendono per sempre incapaci di agire politicamente. Uomini da sempre fuori dalle decisioni della polis non riescono a  pensare seriamente che si possa tutti insieme costruire un futuro politico ispirato a principi di uguaglianza, libertà e giustizia.
Possiamo noi oggi vedere nelle rivolte libiche e iraniane il germe e il furore di un futuro democratico e repubblicano anche per il meridione della Terra?
Da alcuni anni il cosi detto “scontro di civiltà” ci ha costretti a vedere nel mondo orientale popoli di fanatici religiosi insensibili alla libertà politica. Questa idea ci ha convinti che certe dittature filo-occidentali hanno una ragione di esistere in virtù del filtro che assicurano all’occidente contro le orde islamiste.
Invece in questi giorni si assiste a rivolte che nulla hanno di religioso; rivoluzioni che non si rivolgono contro gli stranieri. Come già nel 2009 a Tehran il nemico non è l’occidente Cristiano ma il despota che è al potere e ne approfitta con ferocia e per vantaggi di parte.
La sommossa popolare di questi mesi è rivolta contro tutti quei tiranni che negli ultimi decenni hanno usato il potere politico a fini personali; questi tiranni  si sono arricchiti a spese del popolo.
La battaglia in Egitto, Libia, Tunisia e Iran non ha nulla a che vedere con le fobie occidentali dell’invasione islamica. Oggi in Africa si muore per la libertà politica; per la giustizia intesa come redistribuzione di risorse che appartengono alla collettività; all’uguaglianza di condizione fra tutti i cittadini.
Le stesse ragioni che spinsero al furore i giacobini nel settecento sono alla base della disperazione dei ragazzi di Tripoli e Tehran. Io non so se queste rivolte porteranno benefici e la libertà che tutti sperano, quello che vedo è che in piazza non si grida Allah, ma Libertà.
In risposta a tutti i saccenti e oziosi vigliacchi che giustificano i tiranni con la scusa della diversità culturale, ai fanatici religiosi presi in contropiede da una piazza che non governano io dico di guardare bene in faccia al coraggio di questi ragazzi. Probabilmente i rivoluzionari di oggi  pagheranno caramente la loro rivolta, ma io credo fermamente che loro oggi rappresentano il simbolo di tutte le libertà e di tutto il progresso dell’umanità.
Forse i governi che verranno dopo questi saranno anche peggiori, ma gli uomini che cresceranno domani all’ombra di questa epoca di coraggio e sangue sapranno costruire anche in oriente una speranza di libertà.                           

lunedì 21 febbraio 2011

Dei peccati e delle pene


Dal Corriere del Veneto del 19 febbraio 2011 apprendo questa notizia:

"Accusati di rapina ed estorsione nei confronti di alcuni coetanei due minorenni di Bassano del Grappa sono stati condannati dal tribunale dei minori di Mestre, ad attivarsi nel volontariato, ad andare a messa tutte le domeniche, ottenere ottimi voti a scuola oltre a scusarsi con le vittime."..." il percorso dei giovani durerà un anno al termine del quale il giudice deciderà se considerare la vicenda chiusa o riprendere il percorso penale."

Per l'uomo ancora intorpidito dal letargo tale notizia potrebbe non destare alcun interesse, ma per il cittadino che ha capito che la libertà ha il piccolo prezzo della vigilanza sul mondo, tale caso desta stupore e incredulità. Ebbene sì, chi trova l'errore? Proviamo a rileggere un classico della letteratura giuridica: Cesare Beccaria "Dei delitti e delle Pene".
L'opera del noto illuminista milanese venne scritta nel 1763 e fonda la sua principale tesi sull'inutilità della pena di morte (dopo la sua pubblicazione, nel 1786 il Granducato di Toscana abolì la pena di morte). Pochi però sanno che l'opera del Beccaria fu messa all'Indice dei libri proibiti nel 1766 per un motivo molto semplice, ovvero per la sua distinzione tra "reato" e "peccato";

vi si legge infatti:

"Le precedenti riflessioni mi danno il diritto di asserire che l'unica vera misura dei delitti è il danno fatto alla nazione, e però errano coloro che credettero vera misura dei delitti l'intenzione di chi gli commette. Questa dipende dalla impressione attuale degli oggetti e dalla precedente disposizione della mente". Cap. VII, Errori nella misura delle pene.

sempre nello stesso capitolo:

"La gravezza del peccato dipende dall'imperscrutabile malizia del cuore. Questa da essere finiti non può senza rivelazione sapersi. Come dunque da questa si prenderà norma per punire i delitti? Potrebbono in questo caso gli uomini punire quanto Iddio perdona, e perdonare quanto Iddio punisce."

Visto l'errore? Ebbene sì, la confusione è proprio quella tra "reato" e "peccato". Essere condannati ad andare a messa implica l'assunzione di un'espiazione da un peccato nei confronti di un Dio, mentre l'essere condannati alla reclusione o a forme alternative di condanna implica la visione di una violazione del contratto sociale e di una sua riparazione.
Cosa succederebbe se il diritto intervenisse sulla coscienza religiosa del singolo?
L'immaginazione dovrebbe riportarci al medioevo e alle persecuzioni degli eretici da parte dell'inquisizione cattolica, ma senza scomodare l'immaginazione abbiamo un odierno (tra tanti) accompagnatore.
Si chiama Monsignor Arduino Bertoldo ed è Vescovo Emerito di Foligno. Questo nobiluomo ha recentemente dichiarato:

"Se una donna cammina in modo particolarmente sensuale o provocatorio, qualche responsabilità nell'evento la ha e voglio dire che dal punto di vista teologico anche tentare é peccato. Dunque anche una donna che camminando o vestendosi in modo procace suscita reazioni eccessive o violente, pecca in tentazione".

In poche parole, se il diritto si occupasse della coscienza religiosa della vittima (in questo caso di violenza sessuale) bisognerebbe condannare questa, per il fatto di aver indossato un abito "provocante" o di essere lei stessa attraente oppure di essersi trovata con un abito da sera nel luogo sbagliato al momento sbagliato.
Se il monsignor Bertoldo può non accorgersi della gravità delle sue parole, se i giudici che hanno condannato i minorenni ad andare a messa possono non accorgersi della gravità della loro delibera, ciò è anche dovuto alla nostra coscienza che troppo spesso si sottrae dal dibattito pubblico addebitando la sua volontà particolare alla volontà degli altri; tutto questo in barba alla Volontà Generale del caro Rousseau.


Link degli articoli:

http://corrieredelveneto.corriere.it/veneto/notizie/cronaca/2011/19-febbraio-2011/bullismo-ragazzini-violenti-condannati-un-anno-messa-19050146479.shtml


http://www.pontifex.roma.it/index.php/interviste/religiosi/6212-donne-violentate-indurre-in-tentazione-e-peccato-molte-non-lo-ricordano-lateo-vive-una-esistenza-disperata-e-senza-futuro-pregare-per-loro

domenica 20 febbraio 2011

L'agonia della Repubblica

Questo blog nasce con l'intento di riflettere sulle cause della crisi profonda in cui versa la nostra Repubblica.
Quando parliamo di Repubblica dobbiamo intendere non tanto la particolare Istituzione politica che governa un dato territorio bensì lo spirito di una comunità nell'accezione ampia che Rousseau aveva concepito come Volontà Generale.
Ripartire da Rousseau non significa adesione ad un modello filosofico ne tanto meno significa riproporre modelli di analisi datati; ripartire da Jean-Jacques significa ricercare il coraggio di sottoporre a severa critica i costumi del nostro tempo con l'ambizione di ricercare la soluzione per una società migliore.
Voglio cercare se nell'ordine civile può esservi qualche regola di amministrazione legittima e sicura, prendendo gli uomini come sono e le leggi come possono essere. Tenterò di associare sempre in questa ricerca ciò che il diritto permette con ciò che l'interesse prescrive, perchè la giustizia e l'utilità non si trovino a essere separate.
Con queste parole iniziava il Libro Primo del Contratto Sociale e con questo spirito vorrei che questo blog si animasse di interventi di Cittadini che non si arrendono al declino dei costumi e dello spirito Repubblicano della nostra epoca. 
Sono ben accetti interventi di ogni genere e tenore; nessuna censura e nessun pregiudizio sarà da freno alla libera espressione di chiunque volesse intervenire; c'è sicuramente un limite che non verrà ignorato:  il rispetto per la libertà di ognuno congiunto all'educazione e al decoro del linguaggio. 
I concetti più rivoluzionari e i pensieri più audaci hanno un sapore migliore se conditi con le buone maniere.
Spero che questo spazio sia un luogo fecondo per la riflessione e la discussione circa la possibilità di ritrovare tutti insieme la voglia di lavorare e cooperare al Bene comune.