Giuramento della Pallacorda

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lunedì 11 aprile 2011

L’inesistente liceità dello stato



Un gioco di parole come contrappasso dantesco, solo questo può descrivere l’inesistente laicità e liceità del nostro stato. Un continuo gioco di parole che non si ferma nemmeno di fronte ai fatti. “Laicisti”, “relativisti assoluti”, “complottisti”, “satanisti”, “fondamentalisti anticlericali” e chi più ne ha più ne (ri)metta. Parole queste che non hanno alcun fondamento nella realtà di chi si definisce laico e chiede un rispetto maggiore della propria e altrui libertà.
Perché proprio liceità dello stato? Perché uno stato che nella carta costituzionale è dichiaratamente laico, cioè neutrale nei confronti delle diverse forme di religiosità, (quindi né cristiano, né islamico, né ateo) se non rispetta questo suo principio diventa illecito. Diventa tirannico, dogmatico e intollerante nei suoi progetti e nelle sue leggi. L’Italia è diventata una provincia della città del Vaticano “grazie” non solo al susseguirsi di governi succubi della politica ecclesiastica, ma grazie anche ad un oblio dei valori che avevano segnato il periodo risorgimentale della nostra storia. Un periodo quest’ultimo, che aveva come priorità l’unione territoriale e la formazione di un popolo civile. Ciò poteva avvenire solo con la messa in disparte dello stato pontificio e della sua influenza nella politica.
E così fu; ma solo per un breve lasso di tempo. Le vicende successive, come l’avvento del fascismo e dei patti lateranensi misero al tappeto ogni tendenza laica portandoci in quello che oggi appare come uno stato confessionale, dove vige come religione di stato il cattolicesimo. Imbavagliato dalla politicanza, il Popolo (ammesso che il nostro lo sia) non proclama il suo dissenso nei confronti di questa “dittatura del dogmatismo”; è troppo impaurito dalla possibilità di liberarsi dal giogo e preferisce continuare a portare il peso della vanga, a continuare a sottomettersi alla volontà particolare di una casta sacerdotale-politica.
Nel dimenticatoio furono stipati gli slanci risorgimentali delle “camicie rosse” e di quei pochi cristiani come Ugo Bassi che sacrificarono la vita per l’abbattimento della tirannia. Oggi viviamo pressappoco la stessa emergenza dell’epoca risorgimentale; la libertà individuale è violata dalla prevalenza di caste politico-ecclesiastiche e senza una messa in dubbio di tale sistema non possiamo ottenere una politica del bene comune perché tali caste legiferano solamente per il loro bene particolare. Esempi massimi del degrado e dell’illegalità di questo paese sono l’opulenza delle casse dei partiti (grazie alla legge truffa del finanziamento pubblico dei partiti) e delle casse dello IOR (grazie alla truffa dell’8x mille). Il nostro è un paese dove l’individuo non ha più il diritto di autodeterminarsi e il suo fine vita è nelle mani delle caste. A questo punto fu lungimirante Mario Monicelli, che per sfuggire ad una tortura che non voleva e che respingeva con ogni sua rappresentazione cinematografica, si buttò dal balcone per salire in cielo senza macchine terrene che lo avrebbero trattenuto solo per il vezzo di una casta che vuole mostrare la sua volontà di potenza.
L’unica soluzione a tale sistema sembra essere una ripresa degli ideali e dei valori del risorgimento; quei valori che incarnava un grande sindaco di Roma: Ernesto Nathan; un mazziniano che poneva la sua dimensione etica nel senso del Dovere e nella politica del bene comune. La grande statura (forse insuperabile) di Ernesto Nathan nasceva dalla sua profonda convinzione che la natura principale dell’uomo fosse quella di migliorarsi e di migliorare la sua società (fatti non foste per viver come bruti... diceva Dante). Concetto, quello di Nathan, che riprende l’idea fondamentale di Giuseppe Mazzini nella sua opera “Doveri dell’uomo” (da rileggere in tutte le piazze d’Italia):

“Farvi migliori: questo ha da essere lo scopo della vostra vita... I tiranni sorgerebbero a mille tra voi, se voi non combatteste che in nome degli interessi materiali, o d'una certa organizzazione. Poco importa che mutiate le organizzazioni, se lasciate voi stessi e gli altri colle passioni e coll'egoismo dell'oggi.”

Se è vero che per Rousseau la perfettibilità (capacità di potersi perfezionare) dell’uomo è la causa delle sue disgrazie, è vero anche che in una condizione dove oramai abbiamo tale capacità sarebbe inopportuno, anzi, stupido non usufruirne e rimanere come pecore a belare nel gregge. Riprendere gli ideali risorgimentali non significa quindi ritornare ad un pensiero politico e socio-economico antiquato, ma significa rileggere la storia laddove qualche scintilla, qualche barlume di libertà sembra aver acceso le coscienze e il comune sentire. Partire dalla laicità per arrivare alla liceità; questo potrebbe essere il nuovo motto.

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