Giuramento della Pallacorda

Giuramento della Pallacorda

lunedì 28 marzo 2011

Dal vangelo secondo (De) Mattei


Sono le recenti dichiarazioni del vicepresidente del CNR (Consiglio Nazionale delle Ricerche) Roberto De Mattei ai microfoni della delirante emittente di Padre Livio Fanzaga (Radio Maria) a scandalizzare chi ha un poco di “celluline grigie” nell’encefalo. In quell’intervento non si è parlato di “scomposizione delle cellule” per l’energia nucleare come ha fatto il presidente del consiglio, ma il cervello rimane l’argomento fondamentale che lega questa riflessione. Come può il vicepresidente del più importante motore della ricerca scientifica in Italia, dichiarare che le catastrofi sono “un’esigenza della giustizia di Dio, una benevola manifestazione della misericordia di Dio”... “per molte delle vittime che oggi compiangiamo il terremoto è stato un battesimo di sofferenza che ha purificato le loro macchie, anche le più lievi, e che la loro anima è volata in cielo prima del tempo, perché Dio ha voluto risparmiarle un triste avvenire” ? Verrebbe da parlare di scomposizione delle cellule neuronali del De Mattei, ma sembra che questa scomposizione sia un’anomalia genetica; infatti, fu sempre De Mattei a scagliarsi - sempre nei panni del vicepresidente del CNR- contro l’evoluzionismo organizzando un convegno intitolato “Evoluzionismo: il tramonto di un’ipotesi” nella sede romana del CNR il 23 febbraio 2009. Da non dimenticare anche la “battaglia” di De Mattei contro l’eutanasia, vinta in partenza grazie al sostegno di scimmioni papali e “Homo ridens” del potere politico.

Ma chi è veramente Roberto De Mattei?

Se scopriamo le sue vesti di rappresentate del CNR possiamo vedere che è “professore associato di Storia del Cristianesimo e della Chiesa alla privata Università Europea di Roma, presidente della Fondazione Lepanto, direttore del mensile Radici cristiane, dirigente di Alleanza Cattolica e consigliere del Vicepresidente del Consiglio Gianfranco Fini per le questioni internazionali.” (Cit. P. Odifreddi)

Ma come si spiega che un uomo del genere come De Mattei sia riuscito a ricoprire un incarico così rilevante della ricerca scientifica italiana? Era il 2004 quando il presidente Silvio Berlusconi assieme al ministro dell’Istruzione, dell’Università e della ricerca Letizia Moratti propose la vicepresidenza del CNR a Roberto de Mattei. Forse non ci sarebbe bisogno di dire altro, ma tanto per intenderci fu proprio la Moratti che nel 2004 cercò di obnubilare dai programmi scolastici l’evoluzionismo con il Decreto Legislativo del 18 febbraio. Dopo l'intervento a Radio Maria, il web si è mobilitato per chiedere, tramite petizione, le dimissioni di De Mattei. Una petizione legittima, anzi doverosa. Come può la ricerca scientifica italiana essere rappresentata da un uomo che si fa portatore del più bieco dogmatismo che nei tempi ha contrastato ogni sviluppo scientifico e sociale? Alle polemiche suscitate nel web ecco che ci ha regalato un altro passo del suo vangelo; il vangelo secondo De Mattei:

Gli attacchi contro di me sono un tipico esempio della dittatura del relativismo denunciata da Benedetto XVI. Perché non ho fatto altro che riaffermare la tradizionale dottrina cattolica sulla provvidenza.”

Un’affermazione degna di un intollerante che sa di avere appoggi politici e clericali (sono due cose diverse?) ovunque si trovi. Innanzi tutto vorrei ricordare a De Mattei e di converso al “più alto” da lui citato, che il termine “dittatura del relativismo” è un nonsense, poiché il relativismo non è quella corrente che nega l’esistenza di una verità, ma che invece riconosce il carattere fallibile e probabilistico della potenza conoscitiva umana. In questo senso il relativismo non può essere una dittatura, ma solo una democrazia. È una dittatura invece, quella del dogmatismo cattolico; quella corrente di (non) pensiero che De Mattei dice di riaffermare con i suoi interventi. Detto ciò, mi aggiungo allora alla lista di chi chiede le immediate dimissioni di Roberto De Mattei dal ruolo di vicepresidente del CNR. Non possiamo tollerare che la ricerca scientifica italiana sia rappresentata da chi è contro la ricerca scientifica stessa. Questi sono ossimori creati da una società che ha perso la ragione scambiandola per la fede cieca e irresponsabile; è questo un dogmatismo che non riesce a tollerare nemmeno i nostri fratelli, perché deve imporre classificazioni basate sull’orientamento sessuale alla stessa stregua delle discriminazioni razziali messe in atto dai gruppi del Ku Klux Klan.

venerdì 18 marzo 2011


La rivincita dei Giacobini del 1799

Di Antonella Orefice

Aspettavano il 150 anniversario dell’Unificazione dell’Italia per piangere i loro morti barbaramente assassinati dai Savoia, le loro sorelle violentate, l’oro dei Borbone finito nelle tasche del Nord. Aspettavano di tirare fuori la “loro verità” storica, decantando un regno paradisiaco stroncato nel sangue dei poveri innocenti che volevano difenderlo, che volevano rivendicare la loro terra, la loro dignità. Aspettavano e lo hanno fatto i neo borbonici, trovandosi di fronte all’altra verità, quella della storia, narratrice di glorie e vendette talora nemmeno percepite, perché forse ignari di tutto quanto era avvenuto nel loro regno florido di ricchezze, agi e splendori appena cinquanta anni prima. Quanta ipocrisia, quante manipolazioni, quanta retorica spicciola!

E’ certo comodo provare a discutere ed ammantare di dubbi quel miracolo storico quale è stato il Risorgimento italiano, tirando fuori statistiche e massacri, senza provare a fare un passo indietro e recuperare una memoria troppo scomoda ai nostalgici del Borbone. Sono bravi a decantarlo i suoi nostalgici adepti e non meraviglierà se tra un po’ ne chiederanno la santificazione, pretendendo lodi e requiem per i suoi adepti, facendoli passare per difensori della loro terra, infangando ancor di più la memoria dei martiri, quelli veri, quelli adombrati: i martiri della Repubblica Napoletana del 1799. Troppo scomodo parlare di quella guerra fratricida che vide massacrati migliaia di patrioti veri per mano del Borbone che vigliacco, cercò poi di assassinarne anche la storia, facendo bruciare documenti, reperti e tutto quanto potesse riportare la loro gloriosa impresa alla memoria a i posteri.

Nessuno osa ricordare o porre in essere il dubbio che quel tanto decantato oro del Borbone trafugato dai Savoia potesse derivare dalle confische perpetrate alle famiglie dei repubblicani finiti sui patiboli, nessuno osa ricordare le nostre sorelle violentate dalle truppe mercenarie che l’abile Borbone organizzò con gli inglesi ed il Cardinale Ruffo. Nessuno osa ricordare le stragi che insanguinarono tutto il Sud dell’Italia e quelle famiglie perseguitate per generazioni. Nessuno osa farlo, perché sono verità scomode ed ancora più risonati se solo si pensa che il massacro avvenne tra gente che vivevano nella stessa terra, per non dire nello stesso circondario. Nessuno dei suoi adepti osa farlo perché il loro re ordinò che tutto doveva essere dimenticato, nessuno doveva più ricordare, perché era una verità troppo degradante e, oltre a segnare la sua più grande sconfitta, ne metteva a nudo la sue scelleratezze ed i suoi crimini. Si è sbagliato il Borbone, ha fatto male i suoi conti con la storia, perché quella storia è stata ricostruita meticolosamente da chi realmente ama verità e giustizia e combatte per esse.

Dobbiamo piangere i briganti che furono massacrati dai nordisti e dimenticare i martiri del sud che nelle carceri napoletane della Vicaria, di Castel Sant’Elmo e di tutto il regno del Borbone patirono torture disumane e finirono sui patiboli, senza contare tutti quelli che persero la vita sui cambi di battaglia, che furono trucidati nelle loro case e di cui nemmeno il nome si ricorda. Quei martiri non difendevano il regno del Borbone, ma la Libertà, la Repubblica, quella che oggi in tanti calpestano, non comprendono, degradano e ne offendono la Costituzione.

Festeggiare l’Italia Unita, alla luce di questa storia dimenticata, ha significato festeggiare il sacrificio di quei martiri trucidati per la libertà del sud, per la dignità di quello stesso popolo lazzaro e brigante che, asservito al Borbone, contribuì in misura decisiva alla fine del loro sogno repubblicano. Fu un sogno che durò solo sei mesi, ma chi ama la storia, quella vera, quella che va oltre le manipolazioni, i preconcetti e l’ipocrita retorica, certo non lo ha dimenticato.

venerdì 11 marzo 2011

Elementi di Antropologia della debolezza

I bambini imparano relativamente presto la differenza fra ordine e disordine. I genitori a casa fanno spesso riferimento a questo termine e quando i bambini sono in età scolare la prima difficoltà che devono superare viene definita dai pedagogisti come scolarizzazione. Con questo termine si vuole indicare quell’insieme di regole e norme che permettono di stare in un luogo chiuso come un’aula, assieme ad altri individui che bisogna imparare a conoscere. Durante la scolarizzazione, un periodo che richiede per completarsi a volte anche un anno intero, si impara tra l’altro a stare seduti nel banco, come è possibile parlare ai maestri (se alzando la mano oppure chiamando a voce non troppo alta, con precisi termini che annunciano tale domanda, etc.) e come ci si rapporta con coloro che stanno diventando compagni di un viaggio relativamente lungo.

Eh sì, durante questi primi apprendimenti il concetto di compagno di viaggio è proprio quello importante! Qui risiede il trucco, in fondo, del nostro vivere assieme agli altri e secondo regole condivise. Ossia secondo un ordine che viene considerato adatto nel mantenere un particolare livello di coesione sociale, garantendo un altrettanto particolare livello di libertà individuale. Il termine società deriva, anche questo, dal sostantivo latino socius, ossia “socio”, “alleato”. Dunque, la società è un sistema di alleanze fra individui e il governo di questi rapporti sociali si dispiega fra due piatti di una bilancia. Su di uno poniamo il grado di sicurezza sociale, mentre sull’altro abbiamo il grado di libertà individuale. Quando uno dei due piatti pesa di più, viene meno il peso dell’altro, ovviamente. Se ho più sicurezza sociale, vado incontro necessariamente ad un abbassamento del grado di libertà personale, mentre se aumenta quest’ultima diminuisce la prima. Una perfetta società è quella che, in linea generale, riesce a mantenere i due piatti allo stesso livello, il più a lungo possibile nel tempo ed anche nel rapporto con le bilance delle altre società limitrofe. Il compito, come si può ben capire, non è affatto semplice e richiede una conoscenza relativamente approfondita dei processi umani che portano le persone a stare insieme in alcune circostanze esistenziali, mentre tendono a separarle in altre. Il comportamento umano è di certo la cosa più complessa da comprendere e le ricerche che continuano sotto diverse forme, ma comunque dedicate allo studio dell’umanità, sono costantemente in evoluzione, senza però raggiungere una visione onnicomprensiva delle attitudini mentali e comportamentali della nostra esistenza.

Bene, detto questo, torniamo al viaggio del nostro eistere.

Il termine latino di riferimento che indica il viaggio della vita è errare, dal quale deriva l’ulteriore errante. Nel linguaggio comune però tale parola è associata anche al concetto di sbagliare, perché colui che erra, facendo… può commettere sbagli. Nella saggezza popolare si dice infatti spesso che solo colui che fa rischia di sbagliare, mentre chi non fa niente difficilmente potrà sbagliare. In questo senso, il cammino esistenziale è tanto un andare verso quanto un allontanarsi da. In questo allontanamento si possono incrociare percorsi non del tutto esatti, nel senso che possono discostarsi da quelle regole che la società ha stabilito per se stessa e per la propria sopravvivenza. Anche se possono però esistere regole di comportamento di andamento che, pur essendo all’interno della società, sono dotate di una certa autonomia, come accade, ad esempio,nel caso del comportamento auto-protettivo delle lobbies.

In questo andare, comunque, si deve mettere in conto che esistono percorsi già tracciati, cioè quelli rappresentati dalla tradizione, e percorsi che possono invece avere un alto livello di imprevedibilità, perché presentano un elemento che caratterizza sempre i viaggi più interessanti per l’uomo: il rischio. Il rischio, come direbbe Anthony Giddens, è una categoria esistenziale-antropologica che mutua o origina le sue connotazioni attuali da quando inizia l’esplorazione, dopo i viaggi di Marco Polo e la scoperta dell’America. In realtà, il rischio, inteso come la possibilità di tracciare nuove rotte e nuove mete con la propria esperienza di vita, si origina o nasce con la presenza della nostra specie sulla terra. Senza rischio non ci sarebbe nessuna scoperta, come nessuna conquista ulteriore rispetto a quello che già si possiede.

Il rischio è un’attitudine umana positiva e scientifica, ante litteram e non, che contiene però un margine di errore che, se non valutato attentamente, porta a ciò che prima abbiamo definito come errore. Il rischio ci permette di errare, in entrambi i sensi del termine: andare e sbagliare. Eppure, se voglio andare, in qualche modo devo mettere in conto la possibilità di rischiare. Ancora una volta, come molte volte nella via mentale di ogni persona, si tratta di stabilire una relazione equilibrata fra questi due elementi.

Quanta dose di rischio e quanta di errore posso mettere in conto nel mio cammino di vita?

Per rispondere a questa cruciale domanda, secondo la prospettiva dell’Antropologia della mente, è necessario ragionare facendo riferimento ad un ulteriore fattore esistenziale e comune a tutti gli esseri umani.

A tutti noi è capitato passare momenti della propria vita in cui si è creduto di essere forti ed altri in cui ci si è sentiti più deboli, e proprio grazie a questo vissuto è ragionevole che ogni individuo immagini il proprio futuro secondo questa prospettiva: alcune volte forti ed altre volte deboli.

Cosa significa essere forti ed essere deboli?

Innanzitutto è necessario ragionare sulle locuzioni rette dal verbo essere, inteso come sostanza, nel nostro caso come una realtà ontologica, ossia costituente la persona. Nel nostro attuale sistema della cultura, quello Occidentale del secondo millennio, il termine sostanza viene confuso con quello di manifestazione, in base al quale si presume che il visibile rispecchi l’invisibile, e grazie a questa relazione che si stabilisce fra l’essere e l’apparire, il nostro sistema culturale occidentale ha inventato il concetto di coerenza con il quale si afferma la contiguità fra i due termini. Ciò che appare come espressione di forza si ritiene perciò derivi da una forza reale, sostantiva, ossia connaturata nella persona che la esprime.

Possiamo fare un identico discorso per la debolezza?

No, perché nel caso della debolezza, nel nostro sistema culturale occidentale, in nome della storia evolutiva che lo ha resto tale, si ritiene che essa derivi da una mancanza di forza, come vi fosse una falla nel sistema della forza naturale che si dovrebbe, in quanto persone adulte, possedere. La debolezza non esiste in quanto tale, come sostantiva, ma come espressione, più o meno patologica, di una deficienza, ossia della mancanza di forza.

Nel caso della forza si pensa esista una stretta relazione di contiguità di questa con la struttura essenziale dell’identità della persona, mentre nel caso della debolezza si ritiene che questa stretta relazione, in un certo senso concepita come naturale e come caratteristica ad esempio dell’età adulta, si sia in qualche modo inibita.

In realtà, sia nel caso della forza che in quello della debolezza non si dovrebbe parlare di status identitario, ossia di una situazione stabile esistenziale nella quale un individuo viene a trovarsi e per tutta la vita, quanto di una contingenza nella quale può essere evolutivamente più conveniente, per la propria qualità della vita, dimostrare forza oppure debolezza, anche indipendentemente da quello che egli ritiene di essere, forte oppure debole in generale.

Forza e debolezza sono dunque due forme di re-azione, perché entrambe si apprendono durante il corso della propria esistenza e dipendono da circostanze contingenti che stimolano l’utilizzo di una al posto dell’altra, ma solo nel caso in cui l’individuo abbia appreso che queste due strategie possono essere utilizzate come adattamento ad una specifica situazione.

Come si insegna la forza? Trasmettendo, durante l’infanzia ed all’interno della relazione genitoriale, il sentimento di sicurezza. La sicurezza la si insegna facendo capire al bambino che non sarà mai lasciato solo di fronte ad un problema, ad una incertezza, ad un successo e condividendo con lui sia le gioie che i dolori.

Come si insegna la debolezza? Attraverso l’elaborazione indotta di un sentimento di incertezza, grazie al quale si ha la sensazione di non essere mai all’altezza della situazione, frutto di una sfiducia proveniente dall’ambiente esterno, anche genitoriale iniziale, che considera la persona mai adatta alla situazione e comunque quasi sempre lasciata in solitudine, sia di fronte ai successi che agli insuccessi.

Sperimentare con una certa frequenza il sentimento della debolezza, come risultato della incapacità ad affrontare una situazione che richiede quella giusta dose di autostima e fiducia in sé, conduce a convincersi, lentamente, che la propria “natura”, la propria “essenza”, sia quella di un “buono a nulla”. In realtà, non si hanno gli strumenti cognitivi, perché non sono stati forniti in precedenza, per reagire, sapendo che ogni tentativo è sempre qualcosa di meglio rispetto alla non azione. In effetti, la debolezza è una sorta di abbandono alla non azione, una situazione in cui si “getta la spugna”, perché non ci si è abituati a percepirsi come isolati dalla comprensione altrui. Secondo questa chiave di lettura dunque, è il processo cognitivo che regola la dimensione emozionale, e non viceversa. Mentre, all’inizio della propria vita, durante l’infanzia, è esattamente il contrario, ossia è la dimensione emozionale che attribuisce significato alla conoscenza dell’ambiente, seppure a livello rudimentale.

Nello stesso tempo, però, sperimentare con una altrettanta frequenza il sentimento di forza, proprio perché il successo nel raggiungimento dell’obiettivo conferma continuamente quanto sia giusta la strategia adottata, non significa che in futuro possa presentarsi una situazione nella quale la debolezza sia adattativamente migliore rispetto alla forza. In situazione in cui il rischio della riuscita è decisamente alto, è cognitivamente vincente negare la possibilità di vittoria. In queste situazioni, colui che apparentemente cede è colui che governa la situazione e la controlla, rispetto a colui che vuole vincere a tutti i costi. Vi possono essere ulteriori situazioni in cui inconsapevolmente, reagisco con debolezza, nonostante abbia sempre utilizzato al forza.

In questo modo, ed alternativamente, si esperimenta sia la forza che la debolezza, e si impara a rispondere con forza oppure con debolezza, sia consapevolmente che inconsapevolmente. In sostanza, tanto in presenza che in assenza di coscienza, il mio cervello è in grado di giustificare l’adozione di un comportamento rispetto all’altro solo se educato a questo tipo di riconoscimento. Per questi motivi, diciamo che la forza e la debolezza sono espressioni cognitive di adattamento antropologico.

Questa breve premessa è utile per comprendere meglio ora quello che andremo a dire circa il concetto di afflizione, perché tale fenomeno è presente in tutte le culture umane e anche tra le antropomorfe. Durante tutto il periodo dell’inculturazione, dalla nascita sino a circa vent’anni, ogni essere umano impara ad attenersi a quelle regole di vita sociale che la tradizione tramanda, ed impara a giustificarle come valide ed importanti. Apprende ovviamente anche il modo per eludere tali regole e dunque a giustificarne il motivo. L’adesione ad una norma prevede un atteggiamento di condivisione ai motivi per cui tale regola è legittimamente proposta-imposta da quella società ed in precise circostanze, ma può anche rappresentare, secondo l’ottica di colui che trasgredisce a tale regola, il mezzo per l’ostentazione sociale di uno stile di vita divergente. In qualsiasi società non è possibile trovare atteggiamenti condivisi e partecipati da tutti come necessari, ma si assiste a livelli di scostamento relativo, all’interno del quale ogni individuo crede di esercitare la propria libertà. Il concetto di libertà non è però un valore assoluto, perché come dice Jean Paul Sartre la libertà “è il luogo delle scelte possibili”, dipende cioè dalla geografia umana nella quale vi sono particolari opzioni che posso, appunto, liberamente scegliere.

Ma siamo sicuri che questa scelta sia libera davvero, ossia che ogni individuo, inserito nel proprio contesto sociale e micro-sociale, sia davvero in grado di operare la scelta di vita migliore per sè, sulla base di una valutazione autonoma? Inoltre, siamo sicuri che effettivamente questo sia auspicabile?

Io penso di no e che non sia nemmeno auspicabile, pena la formazione di un sentimento di solitudine e di non appartenenza particolarmente mortifero. Nessun individuo pensa con la propria testa, perché almeno continuiamo a rimanere in due, visto che per ben nove mesi siamo rimasti attaccati ad un cordone e la nostra vita dipendeva interamente da un altro essere umano. Poi, una volta usciti da quell’ambiente, l’utero materno, siamo entrati in un mondo talmente nuovo e ricco di stimoli che senza l’aiuto della madre stessa non saremmo stati in grado certamente di affrontare.

Siamo due, anche se apparentemente sembriamo una persona sola, come se la natura ci avesse imposto una duplicità biologica, strutturale sia nella dimensione corporea che in quella mentale. Inoltre, poiché tutti proveniamo da un utero materno, questa duplicità è sempre riconducibile, in uno dei suoi termini, al femminile… inevitabilmente. Che si nasca maschi, oppure femmine, sempre si ha a che fare con la parte femminile della madre. Diversa è la situazione del padre che, esonerato dalla gestazione ma non di certo dall’allevamento dei figli, si trova a dover sperimentare atteggiamenti diversi rispetto a quelli femminili.

Nell’essere madre bisogna essere forti e deboli al tempo stesso, perché nella forza risiede la tenacia della gravidanza e del parto, nella debolezza la capacità di abbassarsi verso la statura del nascituro, adeguarsi alla sua fragilità emozionale. Nell’essere padre bisogna essere forti e deboli, perché nella forza risiede la capacità di andare nel mondo e portare benessere in casa, assieme ai propri compagni di caccia, e difendere prole e madre, mentre nella debolezza si è pronti a giustificare gli errori di questo andare per il mondo, propri e dei compagni di ventura.

Nella debolezza vi è la forza della comprensione, dell’amore… perché vince sempre chi cede per primo.

Ecco che ora la debolezza diventa un fattore esistenziale utile, evolutivamente parlando, ad esempio, a mantenere in vita la pazienza, l’empatia, la condivisione del dolore, perché solo chi conosce la propria debolezza, perchè coscientemente la sperimenta su di sé, riconosce la stessa debolezza nell’altro, diventando in grado di giustificarne la manifestazione.

Quando un essere umano è posto nelle condizioni costanti di ricordare a se stesso che la forza espressa apparentemente nella trasgressione di una regola, perché forse vissuto in un gruppo sociale che fin da piccolo lo ha educato a credere vera questa idea, è una debolezza camuffata da forza allora sperimenta quello stato emotivo, e dunque anche cognitivo, che definiamo di afflizione. Nel caso in cui questo stato divenga la sua visione del mondo, come nel caso del carcere a vita, oppure in presenza di una pena che prevede molti anni di detenzione, quell’essere umano comincerà a credere di essere talmente colpevole che solo fuggendo cognitivamente da quella realtà penserà di farcela. Si manifesterà allora la menzogna, come unico espediente reale per sfuggire ad uno stato di afflizione che è troppo insopportabile perché troppo costante. E il mentire è un’altra forma di debolezza, forse peggiore rispetto alla trasgressione.

Ecco per quale motivo la debolezza, se metabolizzata a livello cognitivo come una risposta personale, positiva anche quando è camuffata da forza, può essere il motivo per integrarsi di nuovo nella realtà della legalità, perché in essa si può vedere un destino comune a tutta l’umanità che (in ogni dove e tempo) cerca di fuggire una realtà concreta utilizzando la forza o la debolezza quando è troppo difficile sopravvivere.

Se si vuole davvero integrare e rieducare coloro che hanno trasgredito è necessario rivedere il concetto di afflizione secondo la prospettiva che abbiamo appena proposto, perché, secondo noi, solo in questo modo è davvero possibile fare della debolezza il piedistallo della propria resurrezione.

Siamo tutti molto più simili di quello che pensiamo di non essere, e credere di essere troppo originale è all’origine di ogni esagerazione, che la storia dell’umanità ha sempre pagato a duro prezzo.

giovedì 10 marzo 2011

Per una politica della sofferenza


Questa mattina ho letto sul Corriere della Sera che la rivoluzione in nord Africa sta confermando la “profezia di Oriana”.
Una delle più acute penne del Corriere , Piero Ostellino, ci avverte che è in atto un esodo biblico di islamici i quali, dato il numero e le circostanze, rappresentano l’avverarsi della previsione che la giornalista Fallaci fece prima della sua morte: L’Europa diventerà Eurabia.
Secondo questa visione è in atto un invasione di “islamici” che inonderà le nostre terre e che porterà un arretramento della nostra identità occidentale a causa di una repentina islamizzazione della nostra società.
Finito l’articolo mi è tornata alla mente una delle più straordinarie lezioni universitarie tenute dal prof. Mario Reale su Rousseau: “la filosofia della sofferenza”.
Il prof. Reale è riuscito a trasmettere ai suoi studenti l’idea che la riflessione roussoiana sulla natura umana è anche una riflessione sulla sofferenza e sulla sensibilità che è patrimonio genetico di tutti gli esseri viventi.
Nel Discorso Sull’origine e i fondamenti della diseguaglianza fra gli uomini, Rousseau nella Prefazione scriveva così: “ Mettendo dunque da parte tutti i libri scientifici che ci insegnano solo a vedere gli uomini come si sono fatti, e riflettendo sulle prime più semplici operazioni dell’anima umana, io credo di scorgervi due principi anteriori alla ragione: di questi, uno suscita in noi vivo interesse per il nostro benessere e la nostra conservazione; l’altro ci ispira una ripugnanza naturale a vedere morire o soffrire un essere sensibile e in particolare i nostri simili”.
Secondo il filosofo ginevrino dunque l’essere umano partecipa, con tutti gli altri esseri viventi, a un’ esistenza basata su due principi semplici ed essenziali: il desiderio di auto conservarsi e il sentimento di pietà per tutti gli altri esseri sensibili.
Per essere più espliciti e diretti, il buon Jean Jacques, sostiene che l’uomo, in quanto animale, possiede due sentimenti naturali preesistenti allo sviluppo delle proprie capacità razionali.
Questo vuol dire che allo stadio primitivo e originario l’uomo possiede sentimenti di pietà e capacità di comprensione per la sofferenza del proprio simile.
La domanda che mi sono posto a margine della lettura dell’articolo sopracitato è se allo stato attuale della nostra evoluzione civile e morale siamo ancora in grado di provare il sentimento di pietà per la sofferenza dei nostri simili nel momento in cui osserviamo “l’esodo biblico” proveniente dal Nord Africa.
Sempre leggendo il Discorso di Rousseau troviamo più avanti nella Prefazione: “ Considerando la società umana con occhio pacato e disinteressato, essa sembra rivelare a prima vista solo la violenza dei potenti e l’oppressione dei deboli; l’anima si rivolta contro la durezza degli uni; si è portati a deplorare la cecità degli altri; e poiché niente è meno stabile fra gli uomini che queste relazioni esteriori prodotte dal caso più spesso che dalla saggezza, chiamate debolezza o potenza, ricchezza o povertà […] non si arriverà mai a fare queste distinzioni e a separare nella attuale costituzione delle cose ciò che la volontà divina ha fatto da ciò che l’arte umana ha preteso di fare”.
Leggendo questo passo mi chiedo se è pensabile attribuire ai fatti tragici della rivolta e della repressione in Libia un valore tanto diverso dal pensiero roussoiano circa le circostanze di una violenza dei potenti e l’oppressione dei poveri costretti a imbarcarsi per la Sicilia.
Non mi è parso di vedere truppe armate sulla nostra costa siciliana arrembare al grido di “Allah è grande”.
Mi pare invece di osservare gruppi di disperati, affamati e impauriti esseri viventi che fuggono alla ricerca della propria conservazione; uomini che sperano di fuggire dalla morte e dalla oppressione. Credo di vedere miei simili atterriti dalla crudeltà di chi gestisce la forza del dominio e sento in me quel primitivo sentimento di pietà che mi permette di partecipare alla loro sofferenza.
Penso che il  mio occhio non mi stia ingannando nell’osservare lo sconvolgente spettacolo di miei simili in fuga dalla morte e dalla disperazione giungere nel mi Paese, ma temo di intuire, dietro le parole del giornalista del Corriere, che esista la seria possibilità che nella nostra attuale epoca si sia affievolito quel primitivo sentimento di Pietà.
Probabilmente la riflessione di Fallaci(a) memoria risente maggiormente di un abitudine, post moderna, a considerare la propria civiltà non partendo dai valori umani che la fondano bensì dalla paura di perdere lo stato di benessere e di sicurezza che la propria comunità politica in qualche modo ha assicurato ai propri abitanti.
Che la partecipazione alla  sofferenza del proprio simile è una prerogativa degli uomini non lo pensava solo Rousseau, lo pensava anche quel Gesù Cristo che attraverso la propria sofferenza su una croce pensava di redimere l’intera umanità.
Che fine ha fatto la nostra capacità di avere Pietà del prossimo nostro?
Come possiamo scambiare dei poveri naufraghi in fuga dalla miseria e dalla morte con degli invasori pronti a trasformare la nostra civiltà?
Come si può temere un oppresso più della violenza dei potenti?
Io credo che di fronte all’esodo biblico in atto in questi giorni dovremmo verificare se la nostra civiltà è ancora in grado di sviluppare una politica della sofferenza.
Laddove la nostra comunità dovesse essere in grado di mostrare tutta la saldezza dei propri valori e riuscisse a gestire questa emergenza con pietà e fraternità, potremmo essere noi ad invadere gli animi dei nostri oppressi fratelli africani con la sensibilità che la sofferenza umana richiede sempre.    

mercoledì 2 marzo 2011

Il fascino discreto della sacrestia



Nella nostra “povera patria” sembra oramai impossibile richiamarsi alla laicità dello stato. I politicanti immergono le mani nell’acqua santa e fatto questo rituale si lavano dei loro peccati agli occhi della chiesa. Sono atti di ordinaria follia che si succedono da secoli nel nostro paese dimenticando ogni fondamento laico sul quale la nostra costituzione si sofferma. Papi, preti e vescovi che difendono i governi anche e soprattutto quelli più dispotici, se ne sono visti in tutti i paesi e in tutti i tempi; ma ora che per iscritto abbiamo la nostra autorizzazione a chiedere il rispetto della laicità, ce ne siamo dimenticati e lasciamo che il gioco delle parti continui imperterrito. Abbiamo visto il vaticano ringraziare il governo per il suo impegno nel non rispettare la carta costituzionale in più occasioni, dal ricorso del governo contro l’abolizione dei simboli religiosi in luoghi pubblici alla falsa legge sul testamento biologico che ignora completamente il diritto del singolo di autodeterminarsi, dall’inserimento di nuovi insegnanti di religione nella scuola pubblica a scapito degli insegnanti precari ai continui regali milionari che il governo concede con la truffa dell’8x mille.
Tutto questo passa nelle menti degli italiani come una cosa del tutto normale, tanto che alcuni parlano di “stato cattolico” dimenticando che il nostro è uno stato laico ovvero uno stato che si riconosce neutrale nei confronti di tutte le credenze religiose. Oramai è diventato un passo obbligatorio quello della sagrestia, come dimenticare il deputato e (quasi) ministro Aldo Brancher? Che dire della decisione del Consiglio Regionale del Lazio che con l'apporto di Pd, Sel, Idv, FdS e Pdl Polverini, Udc, Destra ha approvato uno stanziamento di 400 mila euro non per i cittadini del Lazio, ma per la realizzazione dell'Auditorium multifunzionale presso il complesso parrocchiale di S.Paolo nel quartiere Cavoni di Frosinone? Che dire della politica integralista della Lega che prevede distribuzione di bibbie e di crocifissi nelle scuole pubbliche del Veneto? E che dire di Formigoni che con l’appoggio di Comunione e Liberazione sta negando la vendita della pillola RU486? (il quale per altro è stato eletto con firme false, e non accenna neanche alle dimissioni); che dire del riconoscimento dell'obiezione di coscienza per i farmacisti da parte del comitato di bioetica?.
Ultimo esempio (ma solo in senso cronologico) dello scambismo clericale è stato il discorso discriminatorio del nostro (aimé) premier Silvio Berlusconi, il quale ha ribadito la linea filoclericale del governo nei confronti delle famiglie gay e delle adozioni ai singoli.
Ci sarebbero infiniti esempi di questo fascino discreto della sacrestia che si potrebbe andare avanti all’infinito. Un partito (magari solo uno!) che si fa portavoce delle idee (pregiudizi) della chiesa è quella forma di potere che Giuseppe Garibaldi definiva aspramente come “governo dei preti”; la più velata forma di teocrazia che prevede il sostentamento del clero da una parte e del governo dall’altra tutto a scapito delle tasche e della coscienza del popolo.
Qualora una sparuta e coraggiosa parte di cittadini faccia notare i giochi di potere tra le caste, subito viene bollata come un gruppo di “laicisti”;un termine questo, col quale si finge una distinzione tra “laici buoni” e “laici cattivi” e guarda caso i laici buoni sono quelli che appoggiano la linea filoclericale anticostituzionale del governo, mentre i laici cattivi sono quelli che cercano di far rispettare la costituzione. A tal proposito Massimo Teodori scrive in un suo articolo:

“A me pare, in sostanza, che gli uomini di Chiesa, facendo credere di fare propria la distinzione tra Chiesa e Stato ed accettando la secolarizzazione della società nata dalla civiltà liberale, in realtà ne negano attraverso la distorsione lessicale, gli autentici significati storici.”

E come non essere d’accordo con Teodori? Tanto per fare un esempio di quello che l’autore ha intercettato, recentemente il Cardinal Bagnasco ha dichiarato che festeggerà il 17 Marzo (festa dell’Unità d’Italia) con una messa solenne. Sì, suona come una presa in giro come quando nella celebrazione del XX settembre 2010 fu concesso un intervento del Cardinal Tarcisio Bertone mentre venne negato ai Radicali il diritto di manifestare.
Stando così le cose viene da chiedersi “Quale futuro per l’Italia?”
A questa domanda Indro Montanelli aveva risposto in una intervista:

“Per l’Italia nessuno... per gli italiani all’estero un futuro brillante”.

Secondo Montanelli l’Italia non può avere un futuro perché “è un paese di contemporanei, senza padri e senza posteri, perché senza memoria” (Cit. Ugo Ojetti). Possiamo accettare questa risposta? Credo di no. Allora iniziamo a vigilare sul nostro presente e a ricordare il nostro passato.